percepire le potenzialità di Silvio Malic | La Fonte TV
“Ho visto cadere le mura di Gerico”! Così Carlo Carretto, nella ricorrenza del primo ventennio (1985) del Concilio, in un incontro testimoniale tra persone che avevano vissuto il tempo del Concilio Vaticano II: “Quando mi trovo davanti a un fratello di altre fedi o ateo mi sento di volerlo mettere in crisi e con lui mi porto davanti a Gerico: noi abbiamo combattuto a Gerico – gli dico – tu come me. Non avevamo nulla, soltanto un bastone sul quale Giosuè ci disse di mettere una punta di ferro, mentre sopra le mura ridevano perché eravamo pochi, venivamo dal deserto, non sapevamo combattere con le armi del mondo e non avevamo più forza. Dio ci ha condotto davanti a Gerico e noi abbiamo combattuto con la forza della fede”.
Tra chiesa e mondo, il problema è stato posto in tutti i modi e da tutti sofferto: da coloro che hanno atteso e preparato il concilio, intraprendendo con entusiasmo il percorso maturato nei documenti finali e da coloro che con ogni mezzo hanno cercato di resistergli: poiché “pastorale” il concilio – sostenevano e sostengono – non aveva che confermato la tradizionale e secolare dottrina della chiesa definita nei precedenti concili.
A cinquant’anni celebriamo l’anno della fede, mentre, in Italia, è stata appena pubblicata l’indagine sulla prima generazione non credente: in essa sono collocati i giovani del presente. Non potrà limitarsi, l’anno, ad essere una ripetizione generale del discorso ecclesiale sulla fede. Il Card. Lercaro, nel novembre 1964, in un discorso al concilio su “fede e Cultura” aveva affermato: “La Chiesa ha bisogno urgente di una povertà culturale, certamente non come ignoranza, ma piuttosto come rinunzia al geloso possesso di un sistema concettuale costruito e chiuso, per porsi invece in un atteggiamento di disponibilità verso tutte le culture egualmente capaci di ricevere il messaggio evangelico e di dilatare gli orizzonti della fede. La Chiesa cioè avrebbe dovuto accettare di essere povera e di rinunziare a proporre l'evangelo rivestito di una sola determinata formulazione culturale non essenziale rispetto al messaggio stesso, ma anzi talora causa d' incomprensione, come già ripetutamente accaduto”. Già nella prima sessione Lercaro aveva posto il tema della povertà della chiesa, affermando la necessità di presentare quest’ultima attorno all’asse centrale dei poveri, per il nesso esistente tra la povertà e la stessa missione del Cristo, per il ruolo che i poveri hanno nella storia della salvezza e per l’urgenza storica del dramma della povertà; la sua proposta fu accolta con una vera ovazione. Nel corso del concilio il tema si diluì e quasi scomparve rimanendo in traccia solo nella Gaudium et spes. Oggi si rivela come l’impellente storia quotidiana delle chiese, soprattutto per quelle dell’antico occidente cristiano.
Con il riconoscimento della storia il concilio ha posto un inizio. La chiesa deve ancora affinare il suo sentire, per ritrovare tutta la freschezza della sua fonte originaria, tutta la libertà di Gesù di Nazareth che sedeva a tavola con i pubblicani e i peccatori del suo tempo per mostrare ad essi la vicinanza del Padre. Questo affinamento del sentire ecclesiale non è problema principale di quelli che riflettono, dei teologi, ma di quanti si sanno porre spiritualmente in sintonia con l’avventura umana di ogni epoca. Qualche volta anche i teologi sanno essere profeti, allora sanno scrivere, come Antonio Rosmini, un libro su Le cinque piaghe della chiesa.
Non basta ripetere il pensato, si impone una invenzione (è il nome che Melchiorre Cano dava alla conoscenza teologica). Questa invenzione non consiste in una semplice deduzione dai principi perenni e nella loro applicazione ai casi concreti, ma in una intelligenza, in una lettura in profondità di ciò che accade. Chi vuole fare questo alla luce del Vangelo è obbligato a scrostare il vangelo stesso dai suoi rivestimenti, per quanto venerabili, e a coniugarlo creativamente con altri segni, con altri significati, con altri linguaggi.
Da sempre la chiesa è stata consapevole che i principi, formulati come leggi universali, restano inadeguati a cogliere la complessità delle situazioni concrete. Per questo i canonisti e teologi medioevali avevano elaborato il concetto di epikeia o “equità”: quando l’applicazione di una legge portasse a contraddire lo spirito stesso della legge, allora è lecito non osservare la legge. Questo non basta più, dal momento in cui si riconosce alla storia un ruolo positivo: luogo nel quale Dio interpella perché tutte le possibilità contenute nella storia vengano a loro volta aperte al messaggio evangelico. Karl Rahner – teologo al concilio – si poneva la domanda se e in che misura la chiesa, nella situazione di passaggio introdotta dal concilio, fosse in grado di percepire potenzialità delle quali mai prima ha fatto uso. Le transizioni epocali ci collocano davanti ad eventi che possiedono un dinamismo tale da esigere una interpretazione accrescitiva come la chiamava Dossetti, ovvero una distinzione fondamentale tra la pura attuazione e l’interpretazione evolutiva che riconosca l’ulteriore della storia e della grazia ed implichi una diversa collocazione della dimensione “dottrinale” dell’esperienza cristiana.☺
“Ho visto cadere le mura di Gerico”! Così Carlo Carretto, nella ricorrenza del primo ventennio (1985) del Concilio, in un incontro testimoniale tra persone che avevano vissuto il tempo del Concilio Vaticano II: “Quando mi trovo davanti a un fratello di altre fedi o ateo mi sento di volerlo mettere in crisi e con lui mi porto davanti a Gerico: noi abbiamo combattuto a Gerico – gli dico – tu come me. Non avevamo nulla, soltanto un bastone sul quale Giosuè ci disse di mettere una punta di ferro, mentre sopra le mura ridevano perché eravamo pochi, venivamo dal deserto, non sapevamo combattere con le armi del mondo e non avevamo più forza. Dio ci ha condotto davanti a Gerico e noi abbiamo combattuto con la forza della fede”.
Tra chiesa e mondo, il problema è stato posto in tutti i modi e da tutti sofferto: da coloro che hanno atteso e preparato il concilio, intraprendendo con entusiasmo il percorso maturato nei documenti finali e da coloro che con ogni mezzo hanno cercato di resistergli: poiché “pastorale” il concilio – sostenevano e sostengono – non aveva che confermato la tradizionale e secolare dottrina della chiesa definita nei precedenti concili.
A cinquant’anni celebriamo l’anno della fede, mentre, in Italia, è stata appena pubblicata l’indagine sulla prima generazione non credente: in essa sono collocati i giovani del presente. Non potrà limitarsi, l’anno, ad essere una ripetizione generale del discorso ecclesiale sulla fede. Il Card. Lercaro, nel novembre 1964, in un discorso al concilio su “fede e Cultura” aveva affermato: “La Chiesa ha bisogno urgente di una povertà culturale, certamente non come ignoranza, ma piuttosto come rinunzia al geloso possesso di un sistema concettuale costruito e chiuso, per porsi invece in un atteggiamento di disponibilità verso tutte le culture egualmente capaci di ricevere il messaggio evangelico e di dilatare gli orizzonti della fede. La Chiesa cioè avrebbe dovuto accettare di essere povera e di rinunziare a proporre l'evangelo rivestito di una sola determinata formulazione culturale non essenziale rispetto al messaggio stesso, ma anzi talora causa d' incomprensione, come già ripetutamente accaduto”. Già nella prima sessione Lercaro aveva posto il tema della povertà della chiesa, affermando la necessità di presentare quest’ultima attorno all’asse centrale dei poveri, per il nesso esistente tra la povertà e la stessa missione del Cristo, per il ruolo che i poveri hanno nella storia della salvezza e per l’urgenza storica del dramma della povertà; la sua proposta fu accolta con una vera ovazione. Nel corso del concilio il tema si diluì e quasi scomparve rimanendo in traccia solo nella Gaudium et spes. Oggi si rivela come l’impellente storia quotidiana delle chiese, soprattutto per quelle dell’antico occidente cristiano.
Con il riconoscimento della storia il concilio ha posto un inizio. La chiesa deve ancora affinare il suo sentire, per ritrovare tutta la freschezza della sua fonte originaria, tutta la libertà di Gesù di Nazareth che sedeva a tavola con i pubblicani e i peccatori del suo tempo per mostrare ad essi la vicinanza del Padre. Questo affinamento del sentire ecclesiale non è problema principale di quelli che riflettono, dei teologi, ma di quanti si sanno porre spiritualmente in sintonia con l’avventura umana di ogni epoca. Qualche volta anche i teologi sanno essere profeti, allora sanno scrivere, come Antonio Rosmini, un libro su Le cinque piaghe della chiesa.
Non basta ripetere il pensato, si impone una invenzione (è il nome che Melchiorre Cano dava alla conoscenza teologica). Questa invenzione non consiste in una semplice deduzione dai principi perenni e nella loro applicazione ai casi concreti, ma in una intelligenza, in una lettura in profondità di ciò che accade. Chi vuole fare questo alla luce del Vangelo è obbligato a scrostare il vangelo stesso dai suoi rivestimenti, per quanto venerabili, e a coniugarlo creativamente con altri segni, con altri significati, con altri linguaggi.
Da sempre la chiesa è stata consapevole che i principi, formulati come leggi universali, restano inadeguati a cogliere la complessità delle situazioni concrete. Per questo i canonisti e teologi medioevali avevano elaborato il concetto di epikeia o “equità”: quando l’applicazione di una legge portasse a contraddire lo spirito stesso della legge, allora è lecito non osservare la legge. Questo non basta più, dal momento in cui si riconosce alla storia un ruolo positivo: luogo nel quale Dio interpella perché tutte le possibilità contenute nella storia vengano a loro volta aperte al messaggio evangelico. Karl Rahner – teologo al concilio – si poneva la domanda se e in che misura la chiesa, nella situazione di passaggio introdotta dal concilio, fosse in grado di percepire potenzialità delle quali mai prima ha fatto uso. Le transizioni epocali ci collocano davanti ad eventi che possiedono un dinamismo tale da esigere una interpretazione accrescitiva come la chiamava Dossetti, ovvero una distinzione fondamentale tra la pura attuazione e l’interpretazione evolutiva che riconosca l’ulteriore della storia e della grazia ed implichi una diversa collocazione della dimensione “dottrinale” dell’esperienza cristiana.☺
“Ho visto cadere le mura di Gerico”! Così Carlo Carretto, nella ricorrenza del primo ventennio (1985) del Concilio, in un incontro testimoniale tra persone che avevano vissuto il tempo del Concilio Vaticano II: “Quando mi trovo davanti a un fratello di altre fedi o ateo mi sento di volerlo mettere in crisi e con lui mi porto davanti a Gerico: noi abbiamo combattuto a Gerico – gli dico – tu come me. Non avevamo nulla, soltanto un bastone sul quale Giosuè ci disse di mettere una punta di ferro, mentre sopra le mura ridevano perché eravamo pochi, venivamo dal deserto, non sapevamo combattere con le armi del mondo e non avevamo più forza. Dio ci ha condotto davanti a Gerico e noi abbiamo combattuto con la forza della fede”.
Tra chiesa e mondo, il problema è stato posto in tutti i modi e da tutti sofferto: da coloro che hanno atteso e preparato il concilio, intraprendendo con entusiasmo il percorso maturato nei documenti finali e da coloro che con ogni mezzo hanno cercato di resistergli: poiché “pastorale” il concilio – sostenevano e sostengono – non aveva che confermato la tradizionale e secolare dottrina della chiesa definita nei precedenti concili.
A cinquant’anni celebriamo l’anno della fede, mentre, in Italia, è stata appena pubblicata l’indagine sulla prima generazione non credente: in essa sono collocati i giovani del presente. Non potrà limitarsi, l’anno, ad essere una ripetizione generale del discorso ecclesiale sulla fede. Il Card. Lercaro, nel novembre 1964, in un discorso al concilio su “fede e Cultura” aveva affermato: “La Chiesa ha bisogno urgente di una povertà culturale, certamente non come ignoranza, ma piuttosto come rinunzia al geloso possesso di un sistema concettuale costruito e chiuso, per porsi invece in un atteggiamento di disponibilità verso tutte le culture egualmente capaci di ricevere il messaggio evangelico e di dilatare gli orizzonti della fede. La Chiesa cioè avrebbe dovuto accettare di essere povera e di rinunziare a proporre l'evangelo rivestito di una sola determinata formulazione culturale non essenziale rispetto al messaggio stesso, ma anzi talora causa d' incomprensione, come già ripetutamente accaduto”. Già nella prima sessione Lercaro aveva posto il tema della povertà della chiesa, affermando la necessità di presentare quest’ultima attorno all’asse centrale dei poveri, per il nesso esistente tra la povertà e la stessa missione del Cristo, per il ruolo che i poveri hanno nella storia della salvezza e per l’urgenza storica del dramma della povertà; la sua proposta fu accolta con una vera ovazione. Nel corso del concilio il tema si diluì e quasi scomparve rimanendo in traccia solo nella Gaudium et spes. Oggi si rivela come l’impellente storia quotidiana delle chiese, soprattutto per quelle dell’antico occidente cristiano.
Con il riconoscimento della storia il concilio ha posto un inizio. La chiesa deve ancora affinare il suo sentire, per ritrovare tutta la freschezza della sua fonte originaria, tutta la libertà di Gesù di Nazareth che sedeva a tavola con i pubblicani e i peccatori del suo tempo per mostrare ad essi la vicinanza del Padre. Questo affinamento del sentire ecclesiale non è problema principale di quelli che riflettono, dei teologi, ma di quanti si sanno porre spiritualmente in sintonia con l’avventura umana di ogni epoca. Qualche volta anche i teologi sanno essere profeti, allora sanno scrivere, come Antonio Rosmini, un libro su Le cinque piaghe della chiesa.
Non basta ripetere il pensato, si impone una invenzione (è il nome che Melchiorre Cano dava alla conoscenza teologica). Questa invenzione non consiste in una semplice deduzione dai principi perenni e nella loro applicazione ai casi concreti, ma in una intelligenza, in una lettura in profondità di ciò che accade. Chi vuole fare questo alla luce del Vangelo è obbligato a scrostare il vangelo stesso dai suoi rivestimenti, per quanto venerabili, e a coniugarlo creativamente con altri segni, con altri significati, con altri linguaggi.
Da sempre la chiesa è stata consapevole che i principi, formulati come leggi universali, restano inadeguati a cogliere la complessità delle situazioni concrete. Per questo i canonisti e teologi medioevali avevano elaborato il concetto di epikeia o “equità”: quando l’applicazione di una legge portasse a contraddire lo spirito stesso della legge, allora è lecito non osservare la legge. Questo non basta più, dal momento in cui si riconosce alla storia un ruolo positivo: luogo nel quale Dio interpella perché tutte le possibilità contenute nella storia vengano a loro volta aperte al messaggio evangelico. Karl Rahner – teologo al concilio – si poneva la domanda se e in che misura la chiesa, nella situazione di passaggio introdotta dal concilio, fosse in grado di percepire potenzialità delle quali mai prima ha fatto uso. Le transizioni epocali ci collocano davanti ad eventi che possiedono un dinamismo tale da esigere una interpretazione accrescitiva come la chiamava Dossetti, ovvero una distinzione fondamentale tra la pura attuazione e l’interpretazione evolutiva che riconosca l’ulteriore della storia e della grazia ed implichi una diversa collocazione della dimensione “dottrinale” dell’esperienza cristiana.☺
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