piazza taksim   di Giovanni Di Stasi
4 Luglio 2013 Share

piazza taksim di Giovanni Di Stasi

 

Quando mi accingo a scrivere queste brevi note, non sono ancora chiari i possibili esiti del braccio di ferro in atto tra il primo ministro turco Recep Tayyp Erdogan e i manifestanti di Piazza Taksim a Istanbul. Di certo il bilancio degli scontri tra dimostranti e polizia è già tragicamente pesante con morti e feriti, frutto di uno sfregio dei diritti civili che non può essere passato sotto silenzio. La causa che ha scatenato la rivolta popolare contro il primo ministro turco è nota, ma la portata della rabbia popolare che si manifesta in tutto il paese ci dice che essa non può essere legata alla sola vicenda di Gezi Park che, peraltro, ha dell'incredibile. Incredibile è infatti il progetto del governo turco di cancellare Gezi Park, adiacente a Piazza Taksim, uno dei pochi spazi verdi rimasti nella  immensa e straordinaria metropoli di Istanbul.

La reazione di molti cittadini che, a cavallo tra il mese di maggio e il mese di giugno, hanno ritenuto di dover manifestare il proprio dissenso rispetto ad una discutibilissima scelta governativa, non avrebbe dovuto sorprendere nessuno. Sorprendente è stata invece la reazione di Erdogan che ha subito chiarito il suo pensiero attraverso l'adozione di una linea di repressione della protesta. Le disposizioni date alla polizia turca di “dialogare” con i dimostranti facendo uso di lacrimogeni, idranti, manganelli e arresti hanno alimentato nel paese un diffuso sentimento di ribellione.

Piazza Taksim è diventata teatro di violenze che non avremmo mai voluto vedere. Violenze che io, personalmente, non mi sarei aspettato di vedere dopo le numerose attività di confronto sui temi della democrazia portate avanti con le autorità turche ad Ankara come a Istanbul, ad Antalya come a Samsun. La base del dialogo che, come presidente del Congresso del Consiglio d'Europa, avevo impostato con i rappresentanti della Turchia sui temi della democrazia era solida e credibile. Il lungo incontro che ebbi, nel mio ufficio di Strasburgo nel 2004 con il primo ministro della Turchia Recep Tayyp Erdogan fu di straordinario interesse. Mi parlò della sua esperienza di sindaco di Istanbul durata 4 anni e mezzo, della sua decisa volontà di puntare sul protagonismo delle autonomie territoriali per rafforzare in Turchia sia lo sviluppo socio-economico, sia i valori europei di partecipazione democratica e di rispetto dei diritti umani, compresi quelle delle minoranze.

Nei mesi che seguirono toccai con mano la difficoltà delle autorità turche a condividere concretamente l'idea stessa di rispetto delle minoranze. Lo spazio che mi capitava di dare ai sindaci curdi all'interno del Congresso del Consiglio d'Europa veniva sottolineato da regolari manifestazioni di disappunto da parte delle autorità centrali  turche. Questo non impediva di implementare regolarmente i programmi di cooperazione con la Turchia in materia di decentramento e di sviluppo territoriale, anche per favorire l'agognato ingresso della Turchia nell'Unione Europea. Era l'epoca in cui moltissimi europei pensavano, con fondate ragioni, che l'accelerazione dell'avvicinamento della Turchia all'Europa avrebbe fatto crescere un presidio democratico di stabilità in un'area dagli equilibri geopolitici assai problematici. Era l'epoca in cui la maggioranza dei cittadini turchi pensava, insieme a molti dei suoi governanti, che la piena integrazione del loro paese nelle istituzioni europee fosse una straordinaria occasione da cogliere.

Poi le cose sono cambiate. Gli europei, colti dalle varie crisi e dalle conseguenti isterie, si sono concentrati sul loro ombelico e hanno smesso di confrontarsi con i loro vicini  mentre i turchi, che nel frattempo raggiungevano significativi livelli di crescita economica, si sono concentrati più sul rafforzamento della loro identità che sulla condivisione dei tratti valoriali europei. Il  rapporto di supremazia della laicità sugli orientamenti musulmani della popolazione, voluto da Mustafa Kemal Ataturk e a lungo garantito dall'esercito, è stato  man mano affievolito e rischia di essere rovesciato del tutto. In questo processo Erdogan ha messo in campo una strategia chiara. Parla sempre meno di Europa, rafforza le connotazioni islamiche della sua attività di governo e comincia a pensare che la mano dura che usa con i curdi possa funzionare anche con i cittadini che ha amministrato da sindaco. Lungo questa strada rischia però di trovarsi di fronte altri Gezi Park e di farsi male, perché nei turchi non si è spento né il ricordo di Ataturk né il sogno di una Turchia democratica, laica ed europea.

 E tuttavia, per il momento, a farsi male sono quei cittadini deprivati del loro diritto alla libertà di dissentire senza essere aggrediti dal potere. Ma, a ben vedere, si sta facendo male anche l'Unione Europea, schiacciata all'interno dei suoi confini dalla paura del futuro e incapace di ammettere che ciò che sta accadendo in Turchia è anche frutto dalla propria inadeguatezza. ☺

giovanni.distasi@gmail.com

 

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