Pudore e visibilio
7 Giugno 2014 Share

Pudore e visibilio

Pudore. Mi piace questa parola, nonostante il sapore vagamente retrò, o proprio per questo. Quando la pronuncio o la ripenso, la mente mi si affolla di immagini e ricordi, alcuni dolcissimi, altri meno. Vedo i crocchi di donne piegate sull’uncinetto a Mirabello, le gambe serrate e un grembiule ad ammantare le ginocchia, se mai rimanessero troppo scoperte; vedo i contadini che venivano in paese per le feste consacrate e si mettevano in coda alle processioni, il capo reclinato, le mani impegnate a stirare il risvolto delle giacche, quasi temessero per le loro vesti un po’ fruste, meno allineate di quelle dei paesani; vedo mio padre giovane e noi bambini nei consessi tra amici, quando è che qualcuno degli adulti si infervorava e si produceva in parole o pose colorite e lui, babbo, abbassava lo sguardo per non incrociare gli occhi miei e di mio fratello, ai quali aveva ripetuto in mille occasioni che mai, mai sia dire e gesticolare così; vedo me, quante volte, le innumerevoli volte che per ogni dove ho sbagliato esagerando e me ne sono vergognata, la voce incerta, la testa piegata a nascondere il volto, un morso al cuore.

Mi è tornata spesso in mente la parola pudore di recente. Sarà stato il contraccolpo del pressing elettorale, volgare e sfrontato il più, di espressioni e gesti inconsulti, di manifesti talora grotteschi, di troppe e troppo aperte sollecitazioni di voto ad personam, ricevute anche per parte di semisconosciuti o presunti avversari e ora ex-avversari in fatto di visione politica.

Una decina di giorni prima delle elezioni mi è giunto il messaggio di un collega che sapevo sufficientemente schierato in politica e in posizione sufficientemente distante dalla mia: appunto in virtù di tale differenza usavamo confrontarci con rispetto. Nel messaggio mi invitava a ricordare nel box elettorale il nome dell’x candidato che lui stesso sosteneva, candidato di una lista y, i cui connotati ideologici manco a dirlo risultavano più vicini alla mia concezione politica che non a quella che supponevo essere a tuttora la sua. Ribaltone a parte, mi sono piccata, gli ho posto che mai avrei barattato la libertà di sentirmi libera, o almeno di crederci. Mi ha telefonato per chiarire, tuttavia mi ha costretto a parlarne, oltraggiando il mio pudore, dopo aver bellamente svenduto il proprio.

“Pudore” è parola ormai decaduta dall’uso linguistico perché in via di estinzione in rebus;  aprioristicamente associata alla pruderie morale calvinista, ha significati multipli e sfumati, come attestano i numerosi sinonimi, da vergogna, a decenza, a costumatezza, a modestia, e bensì gli altrettanto vari antonimi, da esibizione, a corruzione, a sfacciataggine, ad insolenza, magari gratuita e compiaciuta. “Pudore” ci proviene dal latino pudor, termine che rimanda ad una radice indeuropea che contiene l’idea del “darsi pena”, del “preoccuparsi”, evidentemente affinché i propri atti e le proprie espressioni non comportino il disonore di aver travalicato il confine che divide l’umano dal bestiale. Mi viene da pensare che sempre in latino il sostantivo pudor si abbina ad un verbo di costruzione cosiddetta “impersonale”, me pudet: lo traduciamo “io mi vergogno”, ma è traduzione approssimativa a fronte dell’originale latino di tenore ben più forte, in quanto il verbo che indica il sentimento è lì implacabilmente impersonale, il soggetto implicito ne è l’atto, l’idea, la situazione che provoca il pudore, l’oggetto che il pudore “percuote” è chi il pudore lo avverte. Quasi che il senso del pudore presupponesse una sorta di alienazione da sé, un’ inclinazione a guardarsi dal di fuori, come estranei, e giudicarsi poi, arbitri inesorabili.

La notizia del prossimo arrivo del papa in Molise ha suscitato in me un singolare mix di gioia e stordimento. So che, pur combattuta nell’intimo, non parteciperò all’incontro col papa, e non per mancanza di devozione né per via della latente agorafobia che mi soggioga. Il fatto è che, per quanto mi piaccia condividere le emozioni con gli altri e sentirmi elemento pulsante di un tutto, non amo le adunanze di massa né le mitizzazioni spettacolari, specie se si tratta di fede e di religione: ho timore in questi casi di svuotarmi di me, di distogliermi da quel raccoglimento e da quella revisione interiore che mi sono necessari per sentire prossimo Dio. Perciò gli stessi riti religiosi mi vedono spesso in posizione defilata e in silenzio; non è tanto in causa il dualismo azione-contempla- zione, credo sia una questione di pudore, ancora una volta, pudore che mi allontana dal visibilio.

Magari non sono tra i puri di cuore di evangelica memoria, ma onestamente è questa la mia dimensione e in ciò stesso ha una sua purezza originaria: Dio lo trovo meglio tra le nubi sospese nel cielo come altalene, nella bellezza della rosa canina, negli itinerari assolo per la periferia della città al crepuscolo, nel sorriso tenace ed incantevole di un’amica prostrata dalla sofferenza e che pure non rinuncia al decoro e alla fatica della vita. ☺

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