ricordi
22 Febbraio 2010 Share

ricordi

Sgombrare una casa di tutto ciò che vi è stato accumulato per anni è un impegno fisicamente gravoso e insieme, trattandosi della propria casa, una sollecitazione a ricordare, a meditare. È come smontare la propria vita, pezzo per pezzo, come farne l’inventario, non per archiviare il passato, bensì per ricomporne i frammenti in una trama significativa, in una storia identitaria.

Cassetti e armadi mi restituiscono cose che hanno custodito per me: appaiono consunte, scolorite, morte, ma al tocco della mia mano, sotto il mio sguardo curioso o sorpreso si rianimano e mi raccontano senza infingimenti chi ero, in che cosa credevo, i sogni che coltivavo. Ecco le tessere e i diplomi, documenti del mio cammino di formazione nella Gioventù italiana del littorio (GIL), le lettere dal collegio, i libri degli autori che amavo (da Andersen a Salgari, da Hugo a Manzoni); ecco i testi scolastici ancora foderati di carta oleata, i quaderni con la copertina nera e i bordi rossi… Un percorso dolceamaro lungo il paesaggio a chiaroscuri della mia adolescenza, segnato dall’urlo della sirena e dal rombo dei bombardieri.

In una lettera del 1940 descrivo alla mia mamma il primo impatto con la guerra. “È già due volte che abbiamo l’allarme, ma senza incidenti. Figurati eravamo tutte a dormire quando ci ha svegliate la sirena: senza indugiare ci siamo messe a malapena nel buio cappotto vestaglia e sopra una coperta e via nel rifugio che è nel nostro giardino. Non so dirti che effetto facevamo con quelle coperte di lana che biancheggiavano nella notte. Sembravamo tanti fantasmi! Il primo allarme è durato un’ora e mezza, il secondo un’ora. Ma i nemici non hanno tentato neppure di entrare in Roma”.

Così sorridendo e scherzando sfidavamo la paura della morte. Era la nostra una gioiosa, sororale convivenza, nella quale le angosce si stemperavano, i conflitti si componevano, tutti i sogni sembravano possibili: addirittura imminente la fine vittoriosa della guerra che avrebbe dato all’Italia, la patria amata, il ruolo di preminenza politica e morale che le derivava dal suo glorioso passato imperiale.

Prese nell’ingranaggio dei riti e dei miti del fascismo non vedevamo che il nostro amor patrio si esprimeva in termini di arroganza, di rifiuto dei valori delle patrie altrui: di assurda negazione dell’amore in sé, nella sua libera e infinita espansione.

Leggo in una lettera datata 22-2-1942 XX: “Mammina carissima, ti scrivo subito dopo aver finito il tema delle agonali del 1942, intitolato “Il sacrificio non è una rinuncia sterile, ma una forza di cui si serve la Patria per conseguire più rapidamente la Vittoria”.

Dietro la bandiera del patriottismo il potere aveva già immolato un numero enorme di giovani vite umane e stava consumando, senza che nulla trapelasse, l’Olocausto. Ma la vittoria, che purtroppo avrebbe legittimato ogni violenza, non venne. Ci fu invece, nel maggio 1943, la resa italo-tedesca sul fronte dell’Africa settentrionale e con la resa la paura di una immediata invasione dal sud, che portò alla chiusura anticipata delle scuole e alla partenza dal collegio. Parlava di amor patrio ferito lo sguardo con cui ci salutammo. Nello smarrimento dell’ora non ci rendemmo conto che l’addio sarebbe stato definitivo. Fu comunque l’inizio di una presa di coscienza.

Era da poco terminato il conflitto, quando arrivò anche nelle mie mani un logoro taccuino scritto a matita, che andava a ruba fra la gente del paese. Era il diario di uno scampato da Buchenwald. Fu così che venni a conoscenza dell’orrore dei campi nazisti. Molti anni dopo Primo Levi avrebbe con la sua testimonianza denunciato la realtà di Auschwitz come il male assoluto, tale da distruggere l’umanità nell’uomo.

È inconcepibile che la patria divida i suoi figli in buoni e cattivi. Patria, etimologicamente, vuol dire “terra dei padri”: richiama il focolare, l’amore paterno (o materno) che non fa distinzione tra figlio e figlio. C’è un bellissimo pensiero di Mazzini che vorrei citare a questo punto. L’ho trovato in una mia vecchia antologia scolastica.

“La Patria non è un territorio; il territorio non ne è che la base. La patria è l’idea che sorge su quello; è il pensiero d’amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché uno solo dei vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale – finché uno solo vegeta ineducato fra gli educati – finché uno solo, capace e voglioso di lavoro, langue, per mancanza di lavoro, nella miseria – voi non avrete la Patria come dovreste averla, la Patria di tutti, la Patria per tutti. Il voto, l’educazione, il lavoro sono le tre colonne fondamentali della Nazione; non abbiate posa finché non siano per opera vostra solidamente innalzate”.

Penso che valga la pena di rileggere Mazzini. ☺

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