Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta, che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco generose travolse alme d’eroi e di cani e d’augelli orrido pasto lor salme abbandonò…
L’incipit più commovente della letteratura occidentale, ira ed eroi e morti premature e anime generose, anime nobili.
L’Iliade è il poema della forza accecante, della miseria umana e dell’orrore che essa produce. Tanto buio è però interrotto da momenti luminosi, irradiati dal coraggio dell’amore, spazi di grazia dell’anima: sta anche in questo chiaroscuro il monito insuperato di Omero.
Nel sesto libro dell’Iliade si scontrano tra gli altri Glauco e Diomede, di parte troiana il primo, acheo il secondo. Quando il duello si fa più ravvicinato e, riconosciuta nel nemico una singolare dignità di gesto, Diomede gli chiede ammirato la stirpe, quello risponde: “Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe? Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini; le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva fiorente le nutre al tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua”.
Va avanti nella sua risposta Glauco, ma intanto tutto si è come fermato, il tempo quasi dilatato, e il battito fragoroso della battaglia sostituito da quel silenzio – appena un fruscio – che accompagna la riflessione malinconica sulla pochezza e sulla precarietà della vita dell’uomo, da allora contrappunto ritmico della vivida cultura greca. Dai Greci il motivo passa ai Romani (eodem cogimur, “siamo costretti alla stessa meta”, diceva Orazio con la consueta composta tristezza, e ancora pulvis et umbra sumus, “siamo polvere ed ombra”) e si propaga poi giù e giù per i secoli e per ogni dove. Fino alla versione dolcissima di Totò ne ‘A Livella, in cui il povero netturbino così parla al marchese, irritato perché lui, uomo umile e non blasonato, gli è sepolto affianco: “ Ma chi ti cride d’essere? nu ddio? Cca dinto, ‘o vvuò capì ca simmo eguale? Morto si’ tu e morto so’ pur’io; ognuno comme a ‘n’ato è tale e qquale”.
Il comune destino degli uomini, l’indifferenza del ghenos a fronte di tale sorte, la solidarietà interumana che dalla consapevolezza di una simile realtà dovrebbe scaturire. Mi si confondono le voci di Omero e Orazio e Totò e San Paolo e Leopardi, quando penso alla verità di questa lezione.
Ci penso spesso, e ne provo dolore, perché mi accorgo che ci muoviamo la gran parte in direzione contraria, quasi che il riparo nella razza, nelle razze possa fungere da scudo contro le sferzate della fortuna esistenziale, economica, sociale, sempre meglio traballanti.
Si percorrono le vie agnatizie, prolificano patenti e carte di identità di ogni specie; intanto gli uomini vengono mortificati nella loro singolare irripetibile attualità e il sodalizio dell’umana compagnia rimane solo la vana utopia di un gobbo sfigato (in quanti così si ostinano a definire Leopardi, e creduli!).
Una logica ferrea, in senso letterale: metallica e dura, fredda, inumana.
E, in pompa di giornate della memoria di ogni ordine e grado, un’omologazione nazista d.o.c., fondata tutta sull’estromissione.
Non perscrutiamo gli uomini, non ci interessa conoscere e prenderci cura della loro interiorità. Ci fermiamo alla superficie: colore della pelle ed abiti, auto e fattezze della casa, cianfrusaglie varie e loro corrispettivo monetario; siamo aderenti alla forma, misuriamo i comportamenti visibili e, se rispondono ai canoni del gruppo – un gruppo qualsivoglia – bene, altrimenti risultano sospetti, da perseguire.
Diverge – sua colpa – chi putacaso è valdese e non cattolico, chi ha un incarnito olivastro piuttosto che rosato, chi si sottrae al dictat della vetrina e dello shopping nel tempo libero, chi alla caccia dello stivale ferragostano con tacco ipotermico preferisce la stazione in poltrona panciolle e libro in mano, chi rifiuta la serata glamour nel locale di grido per chiacchierare con un amico o una prozia davanti ad un caffé, pure tiepido e bruciaticcio, chi non ostenta titoli o trofei, chi osa camminare lento pede e osservare incantato un paesaggio o un fiore, anziché turbinare in groppa a una tremila cavalli, rivestito del sintomatico mistero di una carta di credito gonfia o rigonfiata.
Per me sono convinta che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori, per dirla con de André. Ma è una mia convinzione e forse qui non c’entra niente.
Fatto è che “eterogeneo” e “diverso” non vogliono dire e non sono né peggiore né migliore. La lingua non è casualmente interscambiabile nelle sue parti, come non lo è la realtà.
“Eterogeneo” e “diverso” vogliono dire, stando ad una traduzione certo pedantesca eppure affidabile quanto al senso, “che è nato da una altra stirpe o famiglia” e “che è rivolto altrove”. Semplicemente altro da me, da noi, tuttavia portatore di un identico titolo di rispettabilità e onore, almeno finché sappia meritarli.
Magari il punto sta lì, magari dovremmo rivedere i nostri canoni di rispettabilità, e ri-orientarli alla luce di una ricerca di sobrietà che non investa solo la sfera economica o lo stile di vita materiale, bensì l’intero nostro orizzonte morale e culturale (in proposito, invito tutti a leggere l’intervento del Cardinal Dionigi Tettamanzi, pubblicato su “La Stampa” del sedici gennaio scorso).
Mi è piaciuto molto il discorso di insediamento del neo-Presidente degli Stati Uniti Obama, mi è piaciuto l’ardire dell’antiretorica, l’insistenza sulla parola responsabilità.
Sposare un’idea che si ritenga giusta, per impopolare che sia, darle senso concreto nel nostro agire quotidiano, mettere in conto lo smacco, perché anche l’idea migliore può avere mille traduzioni volgari, riconoscere e valutare l’errore, assumerne le conseguenze, ripartire da lì: la responsabilità vince l’arbitrio supponente, il pregiudizio coatto, la sottocultura, la grossolana pratica del rinfaccio.
C’è una poesia di Emily Dickinson che ho molto a cuore, parla della grande responsabilità di un piccolo fiore; dice tra l’altro:…Chi passa un fiore con uno sguardo distratto stenterà a sospettare le minime circostanze coinvolte in quel luminoso fenomeno…colmare il bocciolo, combattere il verme, ottenere quanta rugiada gli spetta, regolare il calore, eludere il vento, sfuggire l’ape ladruncola, non deludere la natura grande che l’attende proprio quel giorno. Essere un fiore è profonda responsabilità.
Come esimerci noi?
A presto. ☺
LucianaZingaro@libero.it
Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta, che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco generose travolse alme d’eroi e di cani e d’augelli orrido pasto lor salme abbandonò…
L’incipit più commovente della letteratura occidentale, ira ed eroi e morti premature e anime generose, anime nobili.
L’Iliade è il poema della forza accecante, della miseria umana e dell’orrore che essa produce. Tanto buio è però interrotto da momenti luminosi, irradiati dal coraggio dell’amore, spazi di grazia dell’anima: sta anche in questo chiaroscuro il monito insuperato di Omero.
Nel sesto libro dell’Iliade si scontrano tra gli altri Glauco e Diomede, di parte troiana il primo, acheo il secondo. Quando il duello si fa più ravvicinato e, riconosciuta nel nemico una singolare dignità di gesto, Diomede gli chiede ammirato la stirpe, quello risponde: “Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe? Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini; le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva fiorente le nutre al tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua”.
Va avanti nella sua risposta Glauco, ma intanto tutto si è come fermato, il tempo quasi dilatato, e il battito fragoroso della battaglia sostituito da quel silenzio – appena un fruscio – che accompagna la riflessione malinconica sulla pochezza e sulla precarietà della vita dell’uomo, da allora contrappunto ritmico della vivida cultura greca. Dai Greci il motivo passa ai Romani (eodem cogimur, “siamo costretti alla stessa meta”, diceva Orazio con la consueta composta tristezza, e ancora pulvis et umbra sumus, “siamo polvere ed ombra”) e si propaga poi giù e giù per i secoli e per ogni dove. Fino alla versione dolcissima di Totò ne ‘A Livella, in cui il povero netturbino così parla al marchese, irritato perché lui, uomo umile e non blasonato, gli è sepolto affianco: “ Ma chi ti cride d’essere? nu ddio? Cca dinto, ‘o vvuò capì ca simmo eguale? Morto si’ tu e morto so’ pur’io; ognuno comme a ‘n’ato è tale e qquale”.
Il comune destino degli uomini, l’indifferenza del ghenos a fronte di tale sorte, la solidarietà interumana che dalla consapevolezza di una simile realtà dovrebbe scaturire. Mi si confondono le voci di Omero e Orazio e Totò e San Paolo e Leopardi, quando penso alla verità di questa lezione.
Ci penso spesso, e ne provo dolore, perché mi accorgo che ci muoviamo la gran parte in direzione contraria, quasi che il riparo nella razza, nelle razze possa fungere da scudo contro le sferzate della fortuna esistenziale, economica, sociale, sempre meglio traballanti.
Si percorrono le vie agnatizie, prolificano patenti e carte di identità di ogni specie; intanto gli uomini vengono mortificati nella loro singolare irripetibile attualità e il sodalizio dell’umana compagnia rimane solo la vana utopia di un gobbo sfigato (in quanti così si ostinano a definire Leopardi, e creduli!).
Una logica ferrea, in senso letterale: metallica e dura, fredda, inumana.
E, in pompa di giornate della memoria di ogni ordine e grado, un’omologazione nazista d.o.c., fondata tutta sull’estromissione.
Non perscrutiamo gli uomini, non ci interessa conoscere e prenderci cura della loro interiorità. Ci fermiamo alla superficie: colore della pelle ed abiti, auto e fattezze della casa, cianfrusaglie varie e loro corrispettivo monetario; siamo aderenti alla forma, misuriamo i comportamenti visibili e, se rispondono ai canoni del gruppo – un gruppo qualsivoglia – bene, altrimenti risultano sospetti, da perseguire.
Diverge – sua colpa – chi putacaso è valdese e non cattolico, chi ha un incarnito olivastro piuttosto che rosato, chi si sottrae al dictat della vetrina e dello shopping nel tempo libero, chi alla caccia dello stivale ferragostano con tacco ipotermico preferisce la stazione in poltrona panciolle e libro in mano, chi rifiuta la serata glamour nel locale di grido per chiacchierare con un amico o una prozia davanti ad un caffé, pure tiepido e bruciaticcio, chi non ostenta titoli o trofei, chi osa camminare lento pede e osservare incantato un paesaggio o un fiore, anziché turbinare in groppa a una tremila cavalli, rivestito del sintomatico mistero di una carta di credito gonfia o rigonfiata.
Per me sono convinta che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori, per dirla con de André. Ma è una mia convinzione e forse qui non c’entra niente.
Fatto è che “eterogeneo” e “diverso” non vogliono dire e non sono né peggiore né migliore. La lingua non è casualmente interscambiabile nelle sue parti, come non lo è la realtà.
“Eterogeneo” e “diverso” vogliono dire, stando ad una traduzione certo pedantesca eppure affidabile quanto al senso, “che è nato da una altra stirpe o famiglia” e “che è rivolto altrove”. Semplicemente altro da me, da noi, tuttavia portatore di un identico titolo di rispettabilità e onore, almeno finché sappia meritarli.
Magari il punto sta lì, magari dovremmo rivedere i nostri canoni di rispettabilità, e ri-orientarli alla luce di una ricerca di sobrietà che non investa solo la sfera economica o lo stile di vita materiale, bensì l’intero nostro orizzonte morale e culturale (in proposito, invito tutti a leggere l’intervento del Cardinal Dionigi Tettamanzi, pubblicato su “La Stampa” del sedici gennaio scorso).
Mi è piaciuto molto il discorso di insediamento del neo-Presidente degli Stati Uniti Obama, mi è piaciuto l’ardire dell’antiretorica, l’insistenza sulla parola responsabilità.
Sposare un’idea che si ritenga giusta, per impopolare che sia, darle senso concreto nel nostro agire quotidiano, mettere in conto lo smacco, perché anche l’idea migliore può avere mille traduzioni volgari, riconoscere e valutare l’errore, assumerne le conseguenze, ripartire da lì: la responsabilità vince l’arbitrio supponente, il pregiudizio coatto, la sottocultura, la grossolana pratica del rinfaccio.
C’è una poesia di Emily Dickinson che ho molto a cuore, parla della grande responsabilità di un piccolo fiore; dice tra l’altro:…Chi passa un fiore con uno sguardo distratto stenterà a sospettare le minime circostanze coinvolte in quel luminoso fenomeno…colmare il bocciolo, combattere il verme, ottenere quanta rugiada gli spetta, regolare il calore, eludere il vento, sfuggire l’ape ladruncola, non deludere la natura grande che l’attende proprio quel giorno. Essere un fiore è profonda responsabilità.
Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta, che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco generose travolse alme d’eroi e di cani e d’augelli orrido pasto lor salme abbandonò…
L’incipit più commovente della letteratura occidentale, ira ed eroi e morti premature e anime generose, anime nobili.
L’Iliade è il poema della forza accecante, della miseria umana e dell’orrore che essa produce. Tanto buio è però interrotto da momenti luminosi, irradiati dal coraggio dell’amore, spazi di grazia dell’anima: sta anche in questo chiaroscuro il monito insuperato di Omero.
Nel sesto libro dell’Iliade si scontrano tra gli altri Glauco e Diomede, di parte troiana il primo, acheo il secondo. Quando il duello si fa più ravvicinato e, riconosciuta nel nemico una singolare dignità di gesto, Diomede gli chiede ammirato la stirpe, quello risponde: “Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe? Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini; le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva fiorente le nutre al tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua”.
Va avanti nella sua risposta Glauco, ma intanto tutto si è come fermato, il tempo quasi dilatato, e il battito fragoroso della battaglia sostituito da quel silenzio – appena un fruscio – che accompagna la riflessione malinconica sulla pochezza e sulla precarietà della vita dell’uomo, da allora contrappunto ritmico della vivida cultura greca. Dai Greci il motivo passa ai Romani (eodem cogimur, “siamo costretti alla stessa meta”, diceva Orazio con la consueta composta tristezza, e ancora pulvis et umbra sumus, “siamo polvere ed ombra”) e si propaga poi giù e giù per i secoli e per ogni dove. Fino alla versione dolcissima di Totò ne ‘A Livella, in cui il povero netturbino così parla al marchese, irritato perché lui, uomo umile e non blasonato, gli è sepolto affianco: “ Ma chi ti cride d’essere? nu ddio? Cca dinto, ‘o vvuò capì ca simmo eguale? Morto si’ tu e morto so’ pur’io; ognuno comme a ‘n’ato è tale e qquale”.
Il comune destino degli uomini, l’indifferenza del ghenos a fronte di tale sorte, la solidarietà interumana che dalla consapevolezza di una simile realtà dovrebbe scaturire. Mi si confondono le voci di Omero e Orazio e Totò e San Paolo e Leopardi, quando penso alla verità di questa lezione.
Ci penso spesso, e ne provo dolore, perché mi accorgo che ci muoviamo la gran parte in direzione contraria, quasi che il riparo nella razza, nelle razze possa fungere da scudo contro le sferzate della fortuna esistenziale, economica, sociale, sempre meglio traballanti.
Si percorrono le vie agnatizie, prolificano patenti e carte di identità di ogni specie; intanto gli uomini vengono mortificati nella loro singolare irripetibile attualità e il sodalizio dell’umana compagnia rimane solo la vana utopia di un gobbo sfigato (in quanti così si ostinano a definire Leopardi, e creduli!).
Una logica ferrea, in senso letterale: metallica e dura, fredda, inumana.
E, in pompa di giornate della memoria di ogni ordine e grado, un’omologazione nazista d.o.c., fondata tutta sull’estromissione.
Non perscrutiamo gli uomini, non ci interessa conoscere e prenderci cura della loro interiorità. Ci fermiamo alla superficie: colore della pelle ed abiti, auto e fattezze della casa, cianfrusaglie varie e loro corrispettivo monetario; siamo aderenti alla forma, misuriamo i comportamenti visibili e, se rispondono ai canoni del gruppo – un gruppo qualsivoglia – bene, altrimenti risultano sospetti, da perseguire.
Diverge – sua colpa – chi putacaso è valdese e non cattolico, chi ha un incarnito olivastro piuttosto che rosato, chi si sottrae al dictat della vetrina e dello shopping nel tempo libero, chi alla caccia dello stivale ferragostano con tacco ipotermico preferisce la stazione in poltrona panciolle e libro in mano, chi rifiuta la serata glamour nel locale di grido per chiacchierare con un amico o una prozia davanti ad un caffé, pure tiepido e bruciaticcio, chi non ostenta titoli o trofei, chi osa camminare lento pede e osservare incantato un paesaggio o un fiore, anziché turbinare in groppa a una tremila cavalli, rivestito del sintomatico mistero di una carta di credito gonfia o rigonfiata.
Per me sono convinta che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori, per dirla con de André. Ma è una mia convinzione e forse qui non c’entra niente.
Fatto è che “eterogeneo” e “diverso” non vogliono dire e non sono né peggiore né migliore. La lingua non è casualmente interscambiabile nelle sue parti, come non lo è la realtà.
“Eterogeneo” e “diverso” vogliono dire, stando ad una traduzione certo pedantesca eppure affidabile quanto al senso, “che è nato da una altra stirpe o famiglia” e “che è rivolto altrove”. Semplicemente altro da me, da noi, tuttavia portatore di un identico titolo di rispettabilità e onore, almeno finché sappia meritarli.
Magari il punto sta lì, magari dovremmo rivedere i nostri canoni di rispettabilità, e ri-orientarli alla luce di una ricerca di sobrietà che non investa solo la sfera economica o lo stile di vita materiale, bensì l’intero nostro orizzonte morale e culturale (in proposito, invito tutti a leggere l’intervento del Cardinal Dionigi Tettamanzi, pubblicato su “La Stampa” del sedici gennaio scorso).
Mi è piaciuto molto il discorso di insediamento del neo-Presidente degli Stati Uniti Obama, mi è piaciuto l’ardire dell’antiretorica, l’insistenza sulla parola responsabilità.
Sposare un’idea che si ritenga giusta, per impopolare che sia, darle senso concreto nel nostro agire quotidiano, mettere in conto lo smacco, perché anche l’idea migliore può avere mille traduzioni volgari, riconoscere e valutare l’errore, assumerne le conseguenze, ripartire da lì: la responsabilità vince l’arbitrio supponente, il pregiudizio coatto, la sottocultura, la grossolana pratica del rinfaccio.
C’è una poesia di Emily Dickinson che ho molto a cuore, parla della grande responsabilità di un piccolo fiore; dice tra l’altro:…Chi passa un fiore con uno sguardo distratto stenterà a sospettare le minime circostanze coinvolte in quel luminoso fenomeno…colmare il bocciolo, combattere il verme, ottenere quanta rugiada gli spetta, regolare il calore, eludere il vento, sfuggire l’ape ladruncola, non deludere la natura grande che l’attende proprio quel giorno. Essere un fiore è profonda responsabilità.
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