Storie di “gatti” … e di vampiri
21 Marzo 2023
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Storie di “gatti” … e di vampiri

Larino, gennaio 1560. Al vescovo Belisario Baldovini viene recapitata una disperata richiesta d’aiuto da parte delle autorità di Campomarino, comunità albanese di rito greco della sua diocesi. Nella loro accorata lettera chiedono il permesso di disseppellire e bruciare un cadavere che hanno individuato come responsabile della morte di molti abitanti: “vedendomo tale mortalità si è posto guardie la notte, et così havemo visto dalle ecclesie uscire vampe de foco, il quale noi dicimo il gatto, di modo che tenemo suspitione che alchuno che è morto per il passato […] sia deventato lo gatto, et va magnando tanti homeni et donne”.

Si tratta di una testimonianza di eccezionale valore. In primo luogo perché è una delle prime attestazioni storiche delle cosiddette “credenze vampiriche”: quando in passato si verificava una crisi, di solito una moria o una pestilenza, si scatenava spesso una caccia collettiva al “vampiro” – ovvero un cadavere con pochi o con nessun segno di decomposizione, anzi talvolta più sano del dovuto e gonfio di sangue (della vittima) – nella convinzione che solo tramite la distruzione di tale cadavere si potesse superare la crisi. In secondo luogo perché, provenendo direttamente dalla comunità che era portatrice di tali credenze, la testimonianza ha quel carattere spontaneo che manca nei resoconti ufficiali e nei verbali in cui le descrizioni di quanto accaduto venivano spesso estorte con la costrizione.

A pubblicarla è stato Tommaso Braccini, docente di Filologia classica presso l’Università di Siena e brillante studioso di folklore dall’antichità a oggi, in un articolo pubblicato sul “Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata” (n. 17, 2020, pp. 21-54), una rivista internazionale dedicata, fra le altre cose, allo studio della cultura religiosa dell’Italia meridionale. Questa la sua ricostruzione della singolare vicenda, sulla base di questa lettera e di altri materiali, in particolare i verbali di vari interrogatori, tutti confluiti nel manoscritto Brancacciano I.B.6 della Biblioteca Nazionale di Napoli, e sulla base della documentazione relativa al Baldovini, conservata in Vaticano presso l’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, ms. LL3B, Corrispondenza dal Regno di Napoli. L’intransigente vescovo, appena due giorni dopo l’arrivo della lettera, comincia una serie di interrogatori, dai quali emerge come gli abitanti di Campomarino, il 6 gennaio 1560, si siano riversati nella locale chiesa di San Nicola e abbiano annientato il cadavere del presunto “gatto”: un certo ColaMacriegne, morto ad agosto, ma «da mezo in suso tutto fratido, et dalle gambeseu da mezoabascio tutto bello bianco». Gli tagliano una gamba ancora integra “et d’allora in poi non sono morte più persone ma stanno tutti sani”. Nessuno viene però punito, perché tutti gli imputati del processo, tenutosi nei primi mesi del 1560, riescono a fuggire, con buona pace di Baldovin – che negli anni seguenti continua con altre motivazioni la sua personale crociata contro Greci e Albanesi del Molise e della Capitanata.

Ma cosa c’entra il “gatto” con tutta questa storia? Si potrebbe pensare, in un primo momento, alle tradizioni che collegavano l’uscita dei vampiri dalle proprie tombe alla comparsa di determinati animali, come lupi, cani neri e talvolta anche gatti. Oppure il gatto potrebbe essere stato suggerito dalle “unghie lunghe” e misteriosamente cresciute che, stando a Baldovini,venivano attribuite a questi cadaveri anomali. La scoperta di Braccini è che il “gatto” derivi da una parola di origine slava, lugat, che indica quello che oggi intendiamo per “vampiro”. Il termine, attestato dalla seconda metà del XV secolo, si sarebbe diffuso presso le comunità albanofone stanziatesi in Puglia e Molise proprio in quel periodo. Con il passare del tempo, la parola avrebbe poi subìto un fenomeno linguistico detto deglutinazione e sarebbe diventata lugat, “il gatto”, e, parallelamente, un processo di rimotivazione, favorito dalla credenza, attestata in Albania e in altre zone dei Balcani, secondo cui un defunto si sarebbe trasformato in vampiro se sulla sua salma fosse passato un animale, specialmente un gatto. Quanto alle “vampe de foco”, per cui il “gatto”, quando esce dalla tomba, vaga come un “lume che camina” e talvolta è visto come una fiamma gialla, l’ipotesi di Braccini è che, senza dimenticare i fuochi fatui, nella tradizione greca il vampiro poteva essere chiamato pure lampasma o lampastro, due vocaboli connessi con il termine greco lampás, “fiaccola”.

Una lode al prof. Braccini per aver ‘disse- polto’ e così capillarmente ricostruito questa storia, con l’auspicio che possa trovare ulteriore documentazione, magari proprio nell’Archivio Storico Diocesano di Termoli-Larino.☺

 

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