Stranieri residenti
7 Dicembre 2019
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Stranieri residenti

Il terzo millennio è l’età della diasporizzazione del mondo. La modernità ha negato l’esilio, ha rimosso l’estraneità: un modo potente, ma inefficace, di contrastare le prime grandi ondate migratorie. Il risultato politico è stato l’imprigionamento dei popoli negli Stati-nazione, una forma di abitare in cui é avvenuta una convergenza tra il “sé” e il “luogo”. Ma sotto la spinta di comunità che si protendono oltre lo Stato, tale convergenza si è incrinata, è emerso il fenomeno  di un “sé” che, potendo abitare in differenti luoghi, non si sente più a casa in nessuna parte del mondo. Il rapporto tra il “sé” e il “luogo” si è quasi dissolto. Nella storia c’è stato un solo precedente: l’esilio ebraico.

Proprio la diasporizzazione fa intravvedere la possibilità di un nuovo abitare, elevando a norma quello che prima era eccezione: la condizione dell’esilio. Messo o no alla prova sulle vie dell’emigrazione ciascuno è un esiliato che ignora di esserlo. Lo straniero senza radici, senza patria, senza riparo, porta allo scoperto, nella sua nudità esposta, l’esilio che inquieta dal fondo ogni esistenza. Le circostanze storiche e biografiche svelano il nesso intimo che lega esilio ed esistenza. Sebbene l’etimologia sia controversa, le due parole condividono il prefisso “ex” che indica un emergere da, un passo in fuori, un’uscita. L’esilio si abbatte improvviso con la caratteristica di una tempesta: nulla più è come prima. Interrompe la relazione immediata del singolo con il suo mondo, lo espropria di ogni saldo possesso. A segnare l’interruzione è il momento della partenza. Strappato alla sua terra in cui erano immerse e avviluppate le sue fibre, si sente un albero divelto. È l’esperienza drammatica dello sradicamento: separazione definitiva dalla terra che appare un’entità distinta e irrimediabilmente perduta.

Eppure l’esilio riserva una sorpresa: la terra diventa in qualche modo più presente via via che l’esiliato la percorre rievocandola. Scopre allora che é la terra ad abitarlo. L’affrancamento dall’assegnazione naturale ad un luogo è l’inizio di una inedita libertà: lo spazio si temporalizza e la terra acquista una nuova presenza. Non è la zolla del passato, ma è la promessa del futuro. Nel volgersi indietro l’esiliato guarda a quella vita che ha condiviso, a quel modo di esistere in cui, senza saperlo, si era conformato e che d’un tratto gli appare un’abitudine tra le altre, solo che chiamava “patria” quell’abitare. Naufrago, sopravvissuto alla tempesta, abbandonato sulla riva, ridotto a se stesso, mentre il mare si ritira, gli sembra di non avere più luogo nel mondo. Nulla più lo sorregge. Ma in quell’abisso dove può fare assegnamento solo su di , intuisce che non è il mondo a portarlo, ma è lui a portare il mondo. Mentre si guarda sopravvivere oltre quell’interruzione, simile quasi alla morte, è come se gli occhi di un altro lo scrutassero al fondo. A quegli occhi che lo contemplano, nella nudità del suo sradicamento, non può sfuggire. Nella distruzione della vecchia dimora, nel perdere tutti i sostegni emerge una nuova possibilità: si risveglia a, nasce a se stesso. L’estraneità, che è ormai di casa, lo spinge a disfarsi di sé, a ri-nascere, anzi lo indirizza nella migrazione dell’esilio che prende finalmente un senso simile a quell’antico imperativo dato ad Abramo: “Va via dal tuo paese, dal tuo parentado, dalla casa paterna verso la terra che io ti darò”.

Occorre interrogarsi sul significato di “abitare” e su quello di “migrare” per capire quale ruolo possa svolgere la “residenza” in una politica di ospitalità. Sottolineiamo innanzitutto il paradosso che proprio quando la terra appare una dimora familiare, i suoi “abitanti”, che potrebbero sentirsi a casa ovunque, non lo sono più in nessun luogo. L’appaesamento si volge immediatamente in spaesamento, come se non fosse possibile mettere radici in quel dominio tecnico-industriale che avvolge la terra e ne dispone esclusivamente per i propri calcoli e profitti. La domanda, dunque, riguarda il significato dell’abitare umano. In latino habito è una forma frequentativa del verbo habeo: abitare significa “avere abitualmente, continuare ad avere”. È l’idea del possesso a permeare la semantica. La frequenza si muta in abitudine, e, a sua volta, l’abitudine dà adito al dominio, alla padronanza. Il soggetto protagonista dell’abitare, scava in profondità e traccia intorno a sé i confini dell’appropriazione. Il sé si identifica con il luogo che abita mentre dal luogo ricava la propria identità. Si impone così l’idea che restare, nel senso di trattenersi, permanere, sostare, dischiuda l’accesso esclusivo ad un luogo e ne consenta il diritto di proprietà. Ma questa è solo l’ultima versione “moderna” dell’occidente colonizzatore del mondo.

Nella tradizione culturale del così detto “occidente” abbiamo tre grandi tradizioni circa la cittadinanza e la residenzialità: Atene e i “figli della terra” ovvero il mito dell’autoctonia; Roma, la città senza origine e la cittadinanza imperiale in qualsiasi regione; Gerusalemme: la città degli stranieri. Viviamo però in “occidente” la paradossale attesa della progressiva eliminazione dell’estraneo tendente a negare la possibilità stessa di ogni rapporto, mentre si vantano i vantaggi della “globalizzazione”. Mi piace chiudere con una citazione del Levitico perché ci ricorda che non possiamo dimenticare il vero “se stesso” che ognuno di noi rappresenta: “La terra non sarà alienata irrevocabilmente, perché é a Me la terra, perché voi non siete che stranieri e residenti temporanei presso di me” (Lev. 25,23).☺

 

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