tripudio di gioia
14 Aprile 2010 Share

tripudio di gioia

 

È un po’ di anni che a scuola si tormenta i ragazzi con la cosiddetta “analisi narratologica”(!), specie di dissezione in odor di anatomo-patologo da operare, questa volta, su un testo narrativo. Primo faticoso passo, la distinzione tra fabula e intreccio: “attenti bene che una cosa è la fabula, ordine cronologico lineare dei fatti, altra è l’intreccio, torsione e complicazione su e giù nel tempo dei fatti stessi, frutto della fantasiosa laboriosità dello scrittore”. E giù con gli esercizi. Dato un testo, trattasi al rigo x punto y di fabula o di intreccio? Cosicché, quanto fino ad allora era chiaro alla mente degli allievi, perché auto-evidente, pian piano si oscura. Magie della didattica, una delle troppe. Quando poi è ovvio a tutti, ragazzi e non, discernere una cronaca disciplinata e telegrafica firmata Ansa da un racconto edificato a furia di andirivieni nel tempo, speranze e proiezioni e rimpianti e affondi nella memoria. Come è ogni racconto: altrimenti, che racconto sarebbe?

Prolissa, ut solet, solo per avvertire che opero in piena discronia da scrittore, non essendo scrittore: voglio raccontare oggi del Corpus Domini, che quando voi leggerete sarà già stato festeggiato e mentre che io scrivo ancora non. Mi tuffo nella memoria, quindi, per assaporare ed offrirvi la bellezza di questa festa, e mi abbarbico alla speranza, che sia anche quest’anno una festa speciale. Memoria e speranza, pendolo abusato ed essenziale.

Il Corpus Domini è per me “la festa” di Campobasso, da che si era piccoli e capitava di ritornare da Milano poco prima che la si celebrasse: la sospensione esistenziale vacanziera, col suo incanto, sarebbe cominciata proprio di lì, da quella sagra dall’atmosfera chiassosa ma paesana e famigliare, caotica ma che avvertivo salubre, tanto diversa dal clima che di solito respiravo nella mia pure amatissima Milano.

Non sapevo allora quello che ho imparato molto dopo. Che il Corpus Domini è una festa istituita da papa Urbano IV nel tredicesimo secolo per ricordare la presenza di Cristo nel sacramento dell’Eu- carestia; che essa ricorre il giovedì dopo la domenica successiva alla Pentecoste, anche se di fatto viene celebrata la domenica seguente; che a Campobasso dal 1500 si affermò l’uso di associare alla processione per la festa delle figurazioni sceniche di fatti e miti sacri, chiamate Misteri, fino a che Monsignor Galluccio, vescovo di Boiano, nel Concilio sinodale del 1629 dispose che esse non avessero più luogo, perché inducevano il popolo potius ad risum quam ad devotionem; che solo più di un secolo dopo, sia per evitare lo sconcio delle già fustigate rappresentazioni sia per renderle più belle, si pensò di costruire delle macchine sulle quali situare con ingegno delle persone viventi in modo che, nascosto il meccanismo delle macchine stesse, meravigliosamente si potessero vedere gruppi di più persone che, quasi sospese per aria, inscenavano miracoli e misteri di religione, senza che si scorgesse il modo in cui esse riuscivano a sorreggersi; che tali macchine furono inventate dal meccanico e abile scultore in legno di Campobasso Paolo di Zinno e vennero costruite dai fabbri del capoluogo molisano a spese delle tre Confraternite di Sant’Antonio Abate, Santa Maria della Croce e della Santissima Trinità; che a causa del terremoto del 1805 le sei macchine che erano custodite nella chiesa di Santa Maria della Croce si ruppero e si guastarono e da allora a sfilare per le vie di Campobasso in occasione del Corpus Domini furono le tredici macchine restanti, che ancora oggi  ammiriamo.

Dicevo che da piccola tutte queste informazioni non le avevo e forse neanche le cercavo, solo mi piaceva la festa del Corpus Domini e, a pensarci bene, mi piaceva per gli stessi motivi per cui mi piace oggi.

Mi piace perché è all’insegna del sole e della luce e perché tanto è sacra quanto è gaia.

Mi piace perché, pure fatta oggetto di deliziosi studi socio-etno-antropologici, non ha perso la sua freschezza, non è diventata bomboniera folk per un elite di palati fini o esperti voyeur, ancora conserva la naturale fluidità dell’evento popolare, stonature comprese.

Mi piace il Corpus Domini per il clima di fibrillazione che precede di due giorni o tre la festa vera e propria, e per le bancarelle piene di splendide cose inutili, e per l’odore di frutta secca abbruciacchiata diffuso ovunque, e per la fiumana di gente che si riversa dai paesi a Campobasso, scompigliando almeno in questa occasione la quiete metodica e sonnolenta del capoluogo; mi piace  chi nell’epoca della compravendita globale on-line tuttavia perscruta incuriosito e vigile tra la merce degli ambulanti in cerca dell’occasione impareggiabile di acquisto che solo la sagra può offrire.

Mi piace più di tutto, ovvio, la sfilata dei carri, pesantissimi (cinque quintali per uno!), che percorrono le anguste vie del borgo antico su su fino alle strade centrali della città e alla conclusiva benedizione davanti al Comune, portati a spalla da una quindicina di uomini ognuno; mi piace la fatica eroica, forse un po’ostentata eppure vera e devota, di quei barellieri del sacro, mi piace il loro sinfonico cadenzato movimento ora in battere ora in levare, quando, allo scannètt allèert del caposquadra seguito da un colpo di canna palustre ripetuto tre volte sulla base  del carro, dopo un breve riposo, riprendono la processione.

Mi piacciono i carri – naturale – con tutti i loro figuranti, che dalla piattaforma grado a grado si elevano per aria; e mi piacciono quei loro abiti antichi e conservati con cura, senza però nulla di museale, simili un po’ ai panni che di tanto in tanto ricacciamo estasiati e malinconici dalle cassapanche che raccolgono le doti di nonne e bisavole.

E i bambini soprattutto mi piacciono, arrampicati sui rami di metallo che formano l’ossatura delle macchine e imbrigliati in cinte e bretelle, tesi e compìti, il sorriso lieve, strattonati come sono: loro sì che sembrano farci toccare il cielo, adultamente compresi nel ruolo sacro di cui quel giorno sono gloriosamente investiti, i piccoli campobassani del centro storico – perché è da lì che per tradizione provengono i bambini e i figuranti tutti – con quei loro colori incantevoli e demodè, le gote bianco-rosa e gli occhi verdi e i capelli nerissimi; e mi piacciono i genitori che li seguono solerti ed emozionati e le cascate di caramelle che, specie nel borgo antico, loro patria, li subissano da balconi e finestre, perché sono bambini e la caramella è pur sempre il dolce delle delizie.

Mi piace il Mistero di Sant’Antonio Abate, che rappresenta le tentazioni praticate dal Diavolo contro il  Santo anacoreta, prima fra tutte quella della lussuria in forma di “donzella”, da che ricordo sempre inamovibile, nonostante il provocatorio “vietenne vietenne” del demonio nero e sguaiato che la fronteggia.

 Mi piace il Mistero della Immacolata Concezione, col suo perfetto movimento in verticale, che è nel contempo una risalita dal peccato alla purezza: un serpente che sostiene una croce che sostiene una sfera celeste su cui posa leggero il piede della Vergine, sospesa in aria e contornata da due angioletti con un cuore in mano, mentre un terzo da sopra le regge sul capo una corona.

Mi piace il carro di San Michele, il più vivace di tutti, con l’Arcangelo che, tra le mani una spada sguainata, precipita dall’alto gli angeli ribelli a Dio, Lucifero e in compagnia due altri demoni: pose ed urla bestiali le loro, riproduzione efficacissima del caos inquietante e affannato dei diavoli delle Malebolge di Dante.

Mi piace, mi piace da morirne, l’aria che indefessa fa da sonoro all’intero tragitto, tra bandisti ispirati o scompaginati a momenti: Rossini, opera non so che, perché ho perso l’appunto insieme al borsellino. Peccato che con le parole non si possa riprodurne il tripudio di gioia e colore.

A presto ☺

 LucianaZingaro@libero.i

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