È la prima strofa di una bella poesia di Anna Achmatova, scrittrice russa del secolo scorso che da un anno appena conosco e che però amo come mi fosse amica da sempre. Questione di identità di affetti, credo.
Meditavo l’esordio di questo mio intervento su “La Fonte”, quando mi è venuta in mente la poesia della Achmatova.
Mi spiego.
Qualche giorno fa, la riunione della sgangherata e giudiziosa redazione de “La Fonte: occasione per un bilancio della nostra attività, fortune e fiaschi, e per la formulazione di propositi editoriali più e meno realizzabili, su per giù come accade nelle corso delle normali riunioni di redazione dei normali giornali; e bensì pretesto per un convivio molisanissimo e gustoso a base di tagliolini con ceci, carne alla brace e vino rosso, dieta studiata per agevolare la fluidità del discorso e il parlottare posato e pensoso tra amici.
Così, tra una chiacchiera e l’altra mi ha bussato alla spalla una cara collega: “Sai che anche quest’anno a Campobasso si farà la Notte bianca?”.
Dipinta nel volto e impressa nel tono della voce una stizza di fastidio, lo stesso che all’idea della Notte bianca provo io e spero molti altri ancora.
Non è notizia certa – dico quella della Notte bianca 2008 a Campobasso; solo corre voce, e la fama è caotica e congenitamente malevola.
Procedo per ipotesi, quindi, e chiedo venia per il possibile vaniloquio.
“Notte bianca” o anche “notte in bianco” era fino a qualche tempo fa un ossimoro dozzinale – a mio giudizio – ma efficace, con cui si alludeva per solito ad una delle notti trascorse a vegliare, causa una pena d’amore, una colica renale, una delle tante, troppe altre cure di cui è colma la vita; i più romantici potevano apprezzarne la foggia artefatta, per indicare, rivestito di una certa qual aura poetica, un fenomeno astronomico notevole (una notte inondata di stelle o diffusa del biancore lattiginoso della luna, ad esempio); caso limite, ai lettori più esperti la dicitura “Notte bianca” avrebbe ricordato, previa declinazione al plurale, il titolo di un bel racconto di Dostoeveskji. Nulla di più.
E, però, poiché fugit irreparabile tempus, come cantava il melanconico Virgilio, e poiché mala tempora currunt, come mormorava inorridito il popolo romano tutto al primo sentore di uno stravolgimento irreversibile degli amati mores, ovvio che “notte bianca” non è più quel che fu: incomparabilmente peggio.
Da qualche anno, infatti, “Notte bianca” è data fissa del calendario di feste, festini e festicciole, di cui trabocca ormai la periferia italiana (siano anche in questione Roma e Milano e Torino, sempre di periferia del buon gusto e del buon senso si parla); nella specie, trattasi di una sagra del commercio, fatta di: negozi aperti fino a notte fonda, e irrefrenabile gira e volta di folla che sbircia le vetrine negli intervalli compresi tra una pausa panino-patatina-birra-caffè e la seconda, e spendi e spandi o meglio – visti gli stipendi dei più – guardi e arretri; e ancora, una massiccia dose di rumore musicale, con gruppi folk, pop, rock e chi più ne ha a costellare ora l’uno ora l’altro dei negozi (si intende che, in proporzione del rango di noblesse vantato da ognuno dei suddetti esercizi commerciali, ad alcuni spetti l’urlo siglato Gianna Nannini, ad altri un Mozart in versione banda di Filignano, ad altri ancora un Paolo Conte d’annata arrangiato in tre tempi).
Deve essere stata l’idea di questo caos ridondante di brutto ad avermi suggerito, per antitesi, la poesia della Achmatova, alta per contenuto, limpida e sobria nella forma espressiva: la vita semplice e saggia, contro l’artificiosità istupidente e chiassosa della Notte bianca, la norma di guardare il cielo, anziché le vetrine illuminate a giorno, quando di fatto è buio pesto; il piacere di vagare senza meta anzi sera, invece che portarsi a mo’ di gregge dove impone il dictat del consumo e della visibilità a tutti costi, oltretutto di notte, secondo il più abusato ed innaturale dei trend sociali del decennio in corso; l’esigenza di pregare Iddio, al posto di idolatrare il presenzialismo a pensiero unico del “lo fanno tutti, perché io non?”; la necessità di fiaccare l’inutile angoscia che ci distingue in quanto uomini, piuttosto che l’illusione di guadagnarsi uno spicchio di serenità, brancolando affannati tra guizzi di specchi, bocconi di panini, frammenti di trambusto.
So bene che qualcuno giudicherà vana la mia polemica, e magari anche anti-progressista: sia. Del resto risponde ad un’opinione del tutto personale.
Pure, so con altrettanta certezza di non dire una corbelleria bella e buona, quando affermo che quella della Notte bianca è una festa sgraziata, come tutto ciò che è di troppo, e privo di ragioni e di funzione.
Mi piacerebbe, perciò, che qualcuno dei fautori o ideatori della festa, schierandosi da controparte, mi spiegasse, per esempio, perché tenere aperti i negozi di notte, quando sono aperti di giorno, ormai tutti i giorni; vorrei pure capire quale fonte di guadagno possa mai costituire per i commercianti una notte di esercizio in più, specie ora che i clienti sono molto attenti all’acquisto e, chissà?, magari preferirebbero comprare con la luce diurna, onde evitare sviste; ancora, gradirei sapere come sia possibile in un’epoca afflitta dal problema del deficit energetico consentire, peggio istituzionalizzare, tanto spreco di elettricità per illuminare una notte di bagordi collettivi e come sia concepibile, quand’è un lamentare continuo a proposito di inquinamento, lasciare che intere città siano infestate di baccano dovunque e dappertutto; gradirei, infine, che qualcuno dei miei concittadini utenti della sagra, fra quelli che la apprezzano o perlomeno le si sono assuefatti come ad un rito primigenio e necessario, mi dicesse quale gioia mai, quale dolce sapore abbia per lui la Notte bianca.
Sarei contenta di ricevere risposte, anche tramite questo giornale.
Di mio, come già è accaduto in passato, per evitare il malessere che la Notte bianca mi suscita pure nella dimensione meramente ideale e per scongiurare il disagio ancora maggiore che mi provocherebbe accettarne il compromesso, rinunciando a me stessa e facendo finta che va tutto bene, dopo aver macinato la mia quotidiana dose di chilometri a piedi, di giorno e fino avanti sera, per raggiungere il lavoro, o così, senza meta, per placare la mia, anzi le mie inutili angosce, quella notte lì mi barricherò in casa; ma non sarà una prigione né vivrò la sofferenza dell’esclusione, perché sono persuasa di non perdere nulla che valga la pena di essere vissuto.
A presto.☺
LucianaZingaro@libero.it
Ho appreso a vivere semplice e saggia,
a guardare il cielo, a pregare Iddio,
e a vagare a lungo innanzi sera,
per fiaccare un’inutile angoscia.
È la prima strofa di una bella poesia di Anna Achmatova, scrittrice russa del secolo scorso che da un anno appena conosco e che però amo come mi fosse amica da sempre. Questione di identità di affetti, credo.
Meditavo l’esordio di questo mio intervento su “La Fonte”, quando mi è venuta in mente la poesia della Achmatova.
Mi spiego.
Qualche giorno fa, la riunione della sgangherata e giudiziosa redazione de “La Fonte: occasione per un bilancio della nostra attività, fortune e fiaschi, e per la formulazione di propositi editoriali più e meno realizzabili, su per giù come accade nelle corso delle normali riunioni di redazione dei normali giornali; e bensì pretesto per un convivio molisanissimo e gustoso a base di tagliolini con ceci, carne alla brace e vino rosso, dieta studiata per agevolare la fluidità del discorso e il parlottare posato e pensoso tra amici.
Così, tra una chiacchiera e l’altra mi ha bussato alla spalla una cara collega: “Sai che anche quest’anno a Campobasso si farà la Notte bianca?”.
Dipinta nel volto e impressa nel tono della voce una stizza di fastidio, lo stesso che all’idea della Notte bianca provo io e spero molti altri ancora.
Non è notizia certa – dico quella della Notte bianca 2008 a Campobasso; solo corre voce, e la fama è caotica e congenitamente malevola.
Procedo per ipotesi, quindi, e chiedo venia per il possibile vaniloquio.
“Notte bianca” o anche “notte in bianco” era fino a qualche tempo fa un ossimoro dozzinale – a mio giudizio – ma efficace, con cui si alludeva per solito ad una delle notti trascorse a vegliare, causa una pena d’amore, una colica renale, una delle tante, troppe altre cure di cui è colma la vita; i più romantici potevano apprezzarne la foggia artefatta, per indicare, rivestito di una certa qual aura poetica, un fenomeno astronomico notevole (una notte inondata di stelle o diffusa del biancore lattiginoso della luna, ad esempio); caso limite, ai lettori più esperti la dicitura “Notte bianca” avrebbe ricordato, previa declinazione al plurale, il titolo di un bel racconto di Dostoeveskji. Nulla di più.
E, però, poiché fugit irreparabile tempus, come cantava il melanconico Virgilio, e poiché mala tempora currunt, come mormorava inorridito il popolo romano tutto al primo sentore di uno stravolgimento irreversibile degli amati mores, ovvio che “notte bianca” non è più quel che fu: incomparabilmente peggio.
Da qualche anno, infatti, “Notte bianca” è data fissa del calendario di feste, festini e festicciole, di cui trabocca ormai la periferia italiana (siano anche in questione Roma e Milano e Torino, sempre di periferia del buon gusto e del buon senso si parla); nella specie, trattasi di una sagra del commercio, fatta di: negozi aperti fino a notte fonda, e irrefrenabile gira e volta di folla che sbircia le vetrine negli intervalli compresi tra una pausa panino-patatina-birra-caffè e la seconda, e spendi e spandi o meglio – visti gli stipendi dei più – guardi e arretri; e ancora, una massiccia dose di rumore musicale, con gruppi folk, pop, rock e chi più ne ha a costellare ora l’uno ora l’altro dei negozi (si intende che, in proporzione del rango di noblesse vantato da ognuno dei suddetti esercizi commerciali, ad alcuni spetti l’urlo siglato Gianna Nannini, ad altri un Mozart in versione banda di Filignano, ad altri ancora un Paolo Conte d’annata arrangiato in tre tempi).
Deve essere stata l’idea di questo caos ridondante di brutto ad avermi suggerito, per antitesi, la poesia della Achmatova, alta per contenuto, limpida e sobria nella forma espressiva: la vita semplice e saggia, contro l’artificiosità istupidente e chiassosa della Notte bianca, la norma di guardare il cielo, anziché le vetrine illuminate a giorno, quando di fatto è buio pesto; il piacere di vagare senza meta anzi sera, invece che portarsi a mo’ di gregge dove impone il dictat del consumo e della visibilità a tutti costi, oltretutto di notte, secondo il più abusato ed innaturale dei trend sociali del decennio in corso; l’esigenza di pregare Iddio, al posto di idolatrare il presenzialismo a pensiero unico del “lo fanno tutti, perché io non?”; la necessità di fiaccare l’inutile angoscia che ci distingue in quanto uomini, piuttosto che l’illusione di guadagnarsi uno spicchio di serenità, brancolando affannati tra guizzi di specchi, bocconi di panini, frammenti di trambusto.
So bene che qualcuno giudicherà vana la mia polemica, e magari anche anti-progressista: sia. Del resto risponde ad un’opinione del tutto personale.
Pure, so con altrettanta certezza di non dire una corbelleria bella e buona, quando affermo che quella della Notte bianca è una festa sgraziata, come tutto ciò che è di troppo, e privo di ragioni e di funzione.
Mi piacerebbe, perciò, che qualcuno dei fautori o ideatori della festa, schierandosi da controparte, mi spiegasse, per esempio, perché tenere aperti i negozi di notte, quando sono aperti di giorno, ormai tutti i giorni; vorrei pure capire quale fonte di guadagno possa mai costituire per i commercianti una notte di esercizio in più, specie ora che i clienti sono molto attenti all’acquisto e, chissà?, magari preferirebbero comprare con la luce diurna, onde evitare sviste; ancora, gradirei sapere come sia possibile in un’epoca afflitta dal problema del deficit energetico consentire, peggio istituzionalizzare, tanto spreco di elettricità per illuminare una notte di bagordi collettivi e come sia concepibile, quand’è un lamentare continuo a proposito di inquinamento, lasciare che intere città siano infestate di baccano dovunque e dappertutto; gradirei, infine, che qualcuno dei miei concittadini utenti della sagra, fra quelli che la apprezzano o perlomeno le si sono assuefatti come ad un rito primigenio e necessario, mi dicesse quale gioia mai, quale dolce sapore abbia per lui la Notte bianca.
Sarei contenta di ricevere risposte, anche tramite questo giornale.
Di mio, come già è accaduto in passato, per evitare il malessere che la Notte bianca mi suscita pure nella dimensione meramente ideale e per scongiurare il disagio ancora maggiore che mi provocherebbe accettarne il compromesso, rinunciando a me stessa e facendo finta che va tutto bene, dopo aver macinato la mia quotidiana dose di chilometri a piedi, di giorno e fino avanti sera, per raggiungere il lavoro, o così, senza meta, per placare la mia, anzi le mie inutili angosce, quella notte lì mi barricherò in casa; ma non sarà una prigione né vivrò la sofferenza dell’esclusione, perché sono persuasa di non perdere nulla che valga la pena di essere vissuto.
È la prima strofa di una bella poesia di Anna Achmatova, scrittrice russa del secolo scorso che da un anno appena conosco e che però amo come mi fosse amica da sempre. Questione di identità di affetti, credo.
Meditavo l’esordio di questo mio intervento su “La Fonte”, quando mi è venuta in mente la poesia della Achmatova.
Mi spiego.
Qualche giorno fa, la riunione della sgangherata e giudiziosa redazione de “La Fonte: occasione per un bilancio della nostra attività, fortune e fiaschi, e per la formulazione di propositi editoriali più e meno realizzabili, su per giù come accade nelle corso delle normali riunioni di redazione dei normali giornali; e bensì pretesto per un convivio molisanissimo e gustoso a base di tagliolini con ceci, carne alla brace e vino rosso, dieta studiata per agevolare la fluidità del discorso e il parlottare posato e pensoso tra amici.
Così, tra una chiacchiera e l’altra mi ha bussato alla spalla una cara collega: “Sai che anche quest’anno a Campobasso si farà la Notte bianca?”.
Dipinta nel volto e impressa nel tono della voce una stizza di fastidio, lo stesso che all’idea della Notte bianca provo io e spero molti altri ancora.
Non è notizia certa – dico quella della Notte bianca 2008 a Campobasso; solo corre voce, e la fama è caotica e congenitamente malevola.
Procedo per ipotesi, quindi, e chiedo venia per il possibile vaniloquio.
“Notte bianca” o anche “notte in bianco” era fino a qualche tempo fa un ossimoro dozzinale – a mio giudizio – ma efficace, con cui si alludeva per solito ad una delle notti trascorse a vegliare, causa una pena d’amore, una colica renale, una delle tante, troppe altre cure di cui è colma la vita; i più romantici potevano apprezzarne la foggia artefatta, per indicare, rivestito di una certa qual aura poetica, un fenomeno astronomico notevole (una notte inondata di stelle o diffusa del biancore lattiginoso della luna, ad esempio); caso limite, ai lettori più esperti la dicitura “Notte bianca” avrebbe ricordato, previa declinazione al plurale, il titolo di un bel racconto di Dostoeveskji. Nulla di più.
E, però, poiché fugit irreparabile tempus, come cantava il melanconico Virgilio, e poiché mala tempora currunt, come mormorava inorridito il popolo romano tutto al primo sentore di uno stravolgimento irreversibile degli amati mores, ovvio che “notte bianca” non è più quel che fu: incomparabilmente peggio.
Da qualche anno, infatti, “Notte bianca” è data fissa del calendario di feste, festini e festicciole, di cui trabocca ormai la periferia italiana (siano anche in questione Roma e Milano e Torino, sempre di periferia del buon gusto e del buon senso si parla); nella specie, trattasi di una sagra del commercio, fatta di: negozi aperti fino a notte fonda, e irrefrenabile gira e volta di folla che sbircia le vetrine negli intervalli compresi tra una pausa panino-patatina-birra-caffè e la seconda, e spendi e spandi o meglio – visti gli stipendi dei più – guardi e arretri; e ancora, una massiccia dose di rumore musicale, con gruppi folk, pop, rock e chi più ne ha a costellare ora l’uno ora l’altro dei negozi (si intende che, in proporzione del rango di noblesse vantato da ognuno dei suddetti esercizi commerciali, ad alcuni spetti l’urlo siglato Gianna Nannini, ad altri un Mozart in versione banda di Filignano, ad altri ancora un Paolo Conte d’annata arrangiato in tre tempi).
Deve essere stata l’idea di questo caos ridondante di brutto ad avermi suggerito, per antitesi, la poesia della Achmatova, alta per contenuto, limpida e sobria nella forma espressiva: la vita semplice e saggia, contro l’artificiosità istupidente e chiassosa della Notte bianca, la norma di guardare il cielo, anziché le vetrine illuminate a giorno, quando di fatto è buio pesto; il piacere di vagare senza meta anzi sera, invece che portarsi a mo’ di gregge dove impone il dictat del consumo e della visibilità a tutti costi, oltretutto di notte, secondo il più abusato ed innaturale dei trend sociali del decennio in corso; l’esigenza di pregare Iddio, al posto di idolatrare il presenzialismo a pensiero unico del “lo fanno tutti, perché io non?”; la necessità di fiaccare l’inutile angoscia che ci distingue in quanto uomini, piuttosto che l’illusione di guadagnarsi uno spicchio di serenità, brancolando affannati tra guizzi di specchi, bocconi di panini, frammenti di trambusto.
So bene che qualcuno giudicherà vana la mia polemica, e magari anche anti-progressista: sia. Del resto risponde ad un’opinione del tutto personale.
Pure, so con altrettanta certezza di non dire una corbelleria bella e buona, quando affermo che quella della Notte bianca è una festa sgraziata, come tutto ciò che è di troppo, e privo di ragioni e di funzione.
Mi piacerebbe, perciò, che qualcuno dei fautori o ideatori della festa, schierandosi da controparte, mi spiegasse, per esempio, perché tenere aperti i negozi di notte, quando sono aperti di giorno, ormai tutti i giorni; vorrei pure capire quale fonte di guadagno possa mai costituire per i commercianti una notte di esercizio in più, specie ora che i clienti sono molto attenti all’acquisto e, chissà?, magari preferirebbero comprare con la luce diurna, onde evitare sviste; ancora, gradirei sapere come sia possibile in un’epoca afflitta dal problema del deficit energetico consentire, peggio istituzionalizzare, tanto spreco di elettricità per illuminare una notte di bagordi collettivi e come sia concepibile, quand’è un lamentare continuo a proposito di inquinamento, lasciare che intere città siano infestate di baccano dovunque e dappertutto; gradirei, infine, che qualcuno dei miei concittadini utenti della sagra, fra quelli che la apprezzano o perlomeno le si sono assuefatti come ad un rito primigenio e necessario, mi dicesse quale gioia mai, quale dolce sapore abbia per lui la Notte bianca.
Sarei contenta di ricevere risposte, anche tramite questo giornale.
Di mio, come già è accaduto in passato, per evitare il malessere che la Notte bianca mi suscita pure nella dimensione meramente ideale e per scongiurare il disagio ancora maggiore che mi provocherebbe accettarne il compromesso, rinunciando a me stessa e facendo finta che va tutto bene, dopo aver macinato la mia quotidiana dose di chilometri a piedi, di giorno e fino avanti sera, per raggiungere il lavoro, o così, senza meta, per placare la mia, anzi le mie inutili angosce, quella notte lì mi barricherò in casa; ma non sarà una prigione né vivrò la sofferenza dell’esclusione, perché sono persuasa di non perdere nulla che valga la pena di essere vissuto.
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