asclepio
14 Aprile 2010 Share

asclepio

 

Progresso di nuove bio o neuro-ingegnerie, miracoli dei trapianti, risultati di alchimie farmacologiche sembrano inneggiare oggi all’efficacia e all’efficienza della scienza medica. Eppure mai come adesso la scena sociale sembra avvertire quanto la nostra salute sia casuale e provvisoria. A ciò si aggiunga l’inquietudine sollevata da numerosi eventi di malasanità, nonché l’importanza assegnata al fattore economico che, obbligando a fare i conti con la rigidità del mercato, rischia di snaturare l’essenza più profonda dell’arte medica e alimenta atteggiamenti di incertezza e di smarrimento. Il concetto di salute assume contorni talmente vaghi e contraddittori che l’individuo che “gode di ottima salute” diventa una specie in via di estinzione.

Ricorrono allora le domande, che furono già dei pensatori antichi: “Che cosa distingue la salute dalla malattia? Quali cure può offrire l' arte medica? Come riesce il medico a dialogare con il paziente?”.

Per malattia si intende un "guasto" dell’organismo umano che non sempre si manifesta oggettivamente, che non sempre è facile individuare e quindi riparare. A differenza della malattia, la salute non è causa di preoccupazione: anzi, non siamo quasi mai consapevoli di essere sani.

Nell’antica Grecia si riteneva che la salute fosse "un'armonia, la giusta misura"; era malattia il turbamento di questo equilibrio. È il principio che ha informato tutta la concezione occidentale della medicina, ravvisando nel medico la figura capace di risanare, curare, avere cura. Medico come curante.

Diversamente accadeva nella Cina dei Mandarini, che pagavano il medico solo finché erano sani; nel momento in cui venivano colpiti dalla malattia, gli negavano il compenso. Medico come custode della buona salute.

I Greci affidavano lo studio e la cura delle malattie ad un “semidìo”, Asclepio. Il mito che lo riguarda lo ritrae come instancabile medico, figlio del dio Apollo, capace di guarire ogni sorta di malattia. Il suo culto si diffuse enormemente, tanto che in tutto il bacino del Mediterraneo esistevano, presso i santuari a lui dedicati, veri e propri ricoveri, quelli che oggi definiremmo ospedali, nei quali venivano accolti gli ammalati; ad essi erano offerte cure e somministrati sedativi a base di erbe. Della leggenda che narra di un serpente che gli fornì l’erba miracolosa capace di risuscitare i morti, rimane oggi l’effigie, cara al mondo della medicina, raffigurante Asclepio con in mano un bastone intorno al quale si avvolge un serpente. In virtù delle sue conoscenze il medico in Grecia era considerato un essere dotato di privilegio e autorità morale. Una visione paternalistica della vita e della società i cui ideali erano ordine, tradizione e obbedienza alle leggi universali, collocava questa figura nel ruolo di mediatore tra uomini e dèi, insidiando altresì l’onnipotenza di questi ultimi. Perciò il racconto mitologico rende conto anche dell’invidia, da parte di Zeus, nei confronti di Asclepio, trafitto da un fulmine proprio perché ritenuto responsabile non solo di aver curato gli uomini, ma di aver fornito loro l’illusione di poter sconfiggere la morte. Non ammettevano, gli dèi dell’Olimpo, che gli umani intravedessero la possibilità di migliorare la propria esistenza, e si illudessero di poter assomigliare loro, carpendone l’onnipotenza. L’orizzonte di beatitudine che li avvolgeva doveva contrapporsi all’angoscia della terra, luogo di ogni sorta di affanno. Gli uomini dovevano continuare ad aver bisogno degli dèi, aspettarsi in pace come in guerra un loro intervento specifico e personale, senza il quale una noia mortale si sarebbe impossessata di loro.

Una simile dualità sembra oggi riproporsi nella società. Come nuovi dèi appaiono quei depositari della scienza medica, preoccupati unicamente di ricavare dalla loro professione i maggiori vantaggi economici possibili e di salvaguardare la propria personalità piuttosto che di lasciarsi coinvolgere come persone. Prevale una cultura medica incapace di coniugare l'individuale e il biologico con il sociale e l'antropologico; una cultura che strombazza gli interventi ad alto contenuto tecnologico e di elevato costo (ma monopolizzati da pochi), per lo più svilendo quelli meno spettacolari, meno costosi e mediamente assai più efficaci; una cultura che spesso confonde le vere e le false innovazioni per potersi quotidianamente vantare di qualche nuova meraviglia; una cultura, infine, che si spende ad alimentare il mito della "libertà clinica" che spesso sfocia in vera e propria licenza, in prodigioso "mercato" in cui la libera scelta di un soggetto funge da regolatore di qualità e priorità. ☺

annama.mastropietro@tiscali.it

 

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