uno straniero chiede giustizia
7 Marzo 2010 Share

uno straniero chiede giustizia

 

 

 

 

C’è un elemento che accomuna le conseguenze dell’attività e l’esito della vita di molti profeti, compreso Gesù: la persecuzione non viene da nemici di Dio, ma dall’alleanza tra il potere esercitato in nome di Dio e i gestori del culto. Nella quasi unanimità dei casi si trattava di un controllo esercitato su membri dello stesso popolo, in quanto i profeti erano sudditi dei potenti che denunciavano. C’è tuttavia l’eccezione di un uomo che profetizzava in terra straniera, denunciando le ingiustizie commesse nel paese che lo ospitava: si tratta di Amos. Questo profeta era originario del regno del sud, o regno di Giuda, ma sentì l’impulso di andare nel regno di Israele e lì profetizzare presso il santuario più importante, Betel. Leggendo il libro di Amos, si capisce perché quel profeta, seppure ospite, si scagliava contro i detentori del potere: l’ingiustizia era diventata la regola nel governo, aumentava sempre di più la distanza tra chi possedeva ricchezze e le usava per soddisfare tutte le proprie pulsioni e chi invece, ed era la maggioranza, faceva fatica a sopravvivere. Amos ricorda ai capi del popolo che il regno è nato da un atto di liberazione compiuto da Dio e deve avere come punto di riferimento la legge donata da Dio stesso, quella legge che parla di attenzione agli ultimi. Invece i vertici dello stato e i loro gregari hanno adottato uno stile di vita che produce una forte sperequazione sociale ed economica.

Alla denuncia di Amos risponde, come spesso capita, chi gestisce il culto, cioè il sacerdote Amasia, che prima denuncia Amos e poi, in nome del re, lo espelle dal regno. Sentiamo il racconto: “Amasia, sacerdote di Betel, mandò a dire a Geroboamo, re d’Israele: ‘Amos congiura contro di te, in mezzo alla casa di Israele, il paese non può più sopportare le sue parole’… Amasia disse ad Amos: ‘Vattene, veggente, ritirati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno” (Am 7,10-13). Amos viene delegittimato da Amasia in quanto è uno straniero che pretende di parlare nel cuore del sistema e quindi gli viene ricordato che non ha diritto di parlare, né, potremmo parafrasare, di rubare il pane, in quanto non appartiene al popolo. In realtà il motivo è la critica al potere, ma fa comodo screditare chi parla in nome di una presunta diversità che toglie il diritto di parola. Il libro di Amos non racconta come hanno reagito i sudditi del regno, quei poveri calpestati di cui il profeta parla a più riprese, ma forse potremmo pensare che se è dovuto arrivare uno da fuori per denunciare le ingiustizie, forse quel popolo era già anestetizzato dalla retorica dei capi, spalleggiati da un potere religioso che ammantava di sacro la pratica dell’ingiustizia. Forse, chissà, quei poveri derelitti hanno anche applaudito la scomunica fatta da Amasia, in quanto vedevano in Amos lo straniero che veniva a togliere loro il pane, anziché rendersi conto che l’origine della malattia era nella spregiudicata politica di quei capi che, come dice Amos nel suo libro, “canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano” (Am 6,5-6).

Amos è lo straniero che prende consapevolezza dei soprusi di cui è oggetto, e tale presa di coscienza lo rende solidale verso coloro che subiscono come lui, anche se per cause diverse, la tracotanza del potere; eppure non è capito, resta il profeta solitario perseguitato perché molte volte l’ingiustizia non è solo causata dall’ego- ismo dei pochi, ma dalla connivenza e dalla rassegnazione dei molti che, anziché fare corpo per rivendicare i propri diritti, si chiudono nell’illusoria difesa dei propri interessi, scaricando fuori di sé la colpa di quanto accade e di cui spesso si è più o meno inconsapevolmente complici. Il tentare la fortuna nelle giocate d’azzardo, inseguire il sogno di un quarto d’ora di celebrità, l’impostare i ritmi della propria vita sui tempi dello shopping, il circondarsi di gadget e orpelli, che provengono spesso da depredazioni del sud del mondo, non sono forse tutte forme di rafforzamento di un potere che produce vite di scarto che a loro volta tentano di sopravvivere correndo verso il miraggio di un riscatto e verso la concreta possibilità di mangiare che il mondo opulento possiede? Anche il regno del nord verso il quale Amos era emigrato era produttore di una ricchezza che il regno del sud si sognava e che forse ha fatto scattare in Amos la voglia di un lavoro più redditizio, vista la sua origine di imprenditore che, a causa dell’endemica povertà del sud, pensava di rifarsi al nord. È lì che, guardando la corruzione di quella società, avrà sentito il brivido dell’indignazione che lo ha portato ad avere l’irrefrenabile voglia di parlare e denunciare un sistema che diceva di onorare Dio ma calpestava i princìpi della sua legge.

Amos oggi diventa il simbolo degli stranieri che si fanno carico non solo di far muovere l’economia, ma anche di svegliare dal torpore i cittadini nativi che avallano lo stravolgimento del diritto pur di inseguire il sogno di uno standard di vita che in realtà produce una miseria di ritorno, a causa dell’indebitamento crescente, trovando poi, negli stranieri, il facile capro espiatorio dei propri mali. Sappiamo che la storia non ha dato ragione ad Amasia ma ad Amos, che vedeva nella continuazione di quello stile omicida la causa principale della caduta del regno. Non sarebbe male per noi oggi, anziché fare vani richiami alle radici giudeo-cristiane dell’occidente contro le altre culture, prendere sul serio la denuncia dei profeti per non commettere gli stessi fatali errori. ☺

mike.tartaglia@virgilio.it

 

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