Vuoti a perdere
13 Giugno 2020
laFonteTV (3191 articles)
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Vuoti a perdere

Ce ne siamo andati silenziosamente, sussurrando, a volte forse chiamando un nome, caro, ma quasi sempre sapendo che eravamo soli. Lo eravamo da tempo, da molto tempo e consapevoli: era avvenuto il giorno in cui i figli o i nipoti disattenti, scherzosamente o forse sgarbatamente ci avevano detto – ma che dici, stai zitto/a! Tu che ne sai di questa cosa, sei vecchio/a; oppure – tu non capisci nulla!- Lo siamo stati dal giorno in cui hanno cominciato a tremarci le mani, mancarci le forze per fare anche cose semplici; ma la testa no, con quella avremmo potuto percorrere anni e anni di meravigliose storie da narrare, per tessere i fili della storia familiare e sociale. Ma, di questi tempi, in questo periodo storico non serve.
È da tempo che la nostra figura non ha più la sacralità degli anziani che si seggono in cerchio e dicono la loro, nel silenzio; è da tempo che la società ci ha reso fantasmi: colpevoli di vivere. Colpevoli di costare, colpevoli di non morire.
I nostri figli sono indaffarati, i nostri nipoti sono disattenti e non pronti a vedere la vecchiaia come una ricchezza; la corsa all’immagine perfetta, senza rughe e senza età, senza malattie e senza problemi è oramai entrata, da molti anni, nel nostro modo di vivere.
Schiere di badanti ci hanno tenuto la mano amorosamente o no, ci hanno curato, portato a spasso; oppure siamo entrati in quelle sempre più fiorenti strutture che si chiamano RSA o Case di riposo, secondo la nostra possibilità economica o quella dei nostri figli. Ed amen.
-Mia madre, mio padre sapessi come sta bene! È così accogliente la struttura dove vive e ci sono anche gli animatori! Mangiano bene, vivono bene!-
I camion di Bergamo hanno solo segnato una cesura che non volevate rammentare, lo scandalo delle RSA di Milano ed altre, la fragilità di chi ci viveva hanno solo dato l’ultima rappresentazione di un mondo di invisibili, di fantasmi strappati alla loro vita, alle loro case, alle loro abitudini. Ma eravamo morti da tempo: la vostra frettolosa visita settimanale (?) – come stai bene ciao. Come va – era, ogni volta, una pietra in più per erigere i nostri tumuli mortuari.
Lo so! Non è sempre così e non è ovunque così.
Ma certo, gli affetti ci sono, esistono, ma hanno assunto altri significati e voi figli o nipoti non sentite l’urlo silenzioso che arriva da vicino o lontano. Avete troppe cose da fare e questo periodo di lockdown non ha fatto altro che sottolineare la pericolosità e l’inutilità di incaponirsi a vivere. Anche l’ultimo decreto di Conte suggerisce che gli anziani debbano ancora stare in casa o uscire proprio pochissimo (saltando di nuovo a piè pari la costituzionalità di queste parole).
Sappiamo che i vecchi sono i depositari della memoria, cioè di ciò che siamo, ma della memoria e di ciò che siamo ci importa così poco che è più semplice vedere un peso in ogni vecchio. Nel nostro mondo moderno, l’uomo viene identificato con il suo ruolo lavorativo (produttore) o visto come un potenziale consumatore e l’anziano depotenziato, il pensionato, è qualcuno che è uscito fuori del sistema produttivo e quindi fuori dal mondo che conta. Alla sua dimensione interiore, spirituale, arricchita dalle tante esperienze di vita, non viene data alcuna importanza.
Questo modo di intendere l’ultima fase dell’esistenza come un arresto, una malattia o un impoverimento delle capacità produttive ci conduce ad un grave errore di valutazione in quanto ciò che giunge a compimento è soltanto una fase della vita. La nostalgia, così diffusa tra gli anziani è un sentimento che nasce dalla percezione di aver perso qualcosa solo perché non si ha nulla con cui sostituirlo.
Jung considera la vecchiaia “il tempo della raccolta preziosa, in vista di una ignota trasformazione” ed in un passo di una sua lettera scritta pochi mesi prima di morire: “Quanto più invecchio e tanto più cerco rifugio nella semplicità dell’esperienza immediata”.
L’altro giorno Ferdinando Camon, sulla Stampa, ha scritto: “I vecchi cosa sono? La mortalità tra gli ultraottantenni si aggira sul 14 per cento, ma è un dato che non si cita mai, nessuno lo conosce, lo conosco io perché mi riguarda. E allora mi chiedo: gli ottantenni non contano? Sono considerati già morti? Non hanno più importanza per la società, per la scienza, per la medicina, per la sanità, per l’informazione, per le famiglie? La loro vita è oggettivamente meno preziosa? È meno ricca di sentimento, di sensibilità, di preoccupazioni, di amore, di relazioni?”.☺

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