storie di brigantesse
30 Aprile 2011 Share

storie di brigantesse

 

 È difficile attribuire una data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima importante figura può essere individuata in Francesca La Gamba, nata a Palmi (RC). Francesca, filandiera di professione, madre di tre figli, divenne capobanda, spinta da un’incontenibile sete di vendetta contro i francesi che l’avevano colpita negli affetti più cari. Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva avuto due figli, convolò in seconde nozze. Bella ed esuberante nel carattere, attirò un ufficiale francese che, invaghitosene, tentò – forte della sua posizione sociale – di sedurla. Respinto dalla fiera Francesca il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l’esercito francese di occupazione ed il mattino successivo fece arrestare i figli della donna, accusandoli di essere gli autori della bravata. Francesca passò dalla parte dei briganti, fornì prove di ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa, seminando ovunque il terrore. I francesi si accanirono nella caccia della donna, fino a quando un loro drappello cadde in un’imboscata tesa da Francesca. Tra i soldati fatti prigionieri la sorte volle che ci fosse proprio l’ufficiale suo nemico. Con una coltellata Francesca gli strappò il cuore e lo divorò ancora palpitante.

Questa storia, del 1769, è fra mito e realtà, ma certamente l’epoca del brigantaggio riguarda in maniera significativa anche le donne. Occorre qui introdurre ed operare – semmai – una distinzione che dall’ottocento ad oggi ha diviso e divide gli studiosi: la distinzione tra “la donna del brigante” e “la brigantessa”. Numerosi sono gli esempi di “donne del brigante”, più rari – ma non meno significativi – quelli di “brigantesse”. La “donna del brigante” è colei che ha dovuto o voluto seguire il proprio uomo.  Spesso il darsi alla macchia del proprio uomo l’ha confinata in una condizione ancora più disperata. Le è venuta meno ogni forma di sostentamento: l’opinione pubblica l’ha additata con disprezzo e l’ha isolata,  anche per timore di sospetti di connivenza. Non le è rimasto che la carità o la prostituzione. La “donna del brigante” è anche colei che viene rapita e sedotta dal bandito, ridotta in stato di schiavitù e costretta – contro il suo volere – a seguirlo nelle sue azioni brigantesche. Spesso finisce però per innamorarsene, per quella condizione psicologica che oggi è classificata come “sindrome di Stoccolma”. È il caso, ad esempio di Filomena Ciccaglione, di Riccia; figlia di contadini, viene rapita dal brigante Caruso (il Caporale), che le uccide il padre e la porta con sé. Filomena segue Caruso ma dopo un anno lo denuncia, lui viene ucciso, lei muore dopo un mese di tisi.

Diverso il destino di una non meglio identificata Margherita che fu rapita dopo l’uccisione del padre dal brigante Bizzarro, uomo violento e sanguinario che imperversava nelle Calabrie. Costui la rese sua schiava e la condusse con sé, in groppa al proprio cavallo, nelle imprese brigantesche alle quali dava continuamente vita. Ci si aspetterebbe che la donna fosse investita da rabbia, rancore e odio. Invece in Margherita, lentamente, l’odio verso Bizzarro si trasformò in ammirazione, il sentimento di vendetta fu sostituito dall’amore verso il boia della sua famiglia. Ne diventò la compagna ed il braccio destro e lo accompagnò nelle sue scorrerie, gareggiando con lui in audacia e coraggio. Diversa la donna che la sostituì: Niccolina Licciardi cui fu ucciso anche il figlioletto. Niccolina non versò neppure una lacrima. Con le mani scavò una fossa, vi seppellì il figlioletto e si pose a guardia della tomba. Profittando poi del sonno di Bizzarro, gli sottrasse il fucile e gli fece saltare le cervella, sparandogli in un orecchio. Decapitato il bandito, ne avvolse la testa in un panno, si diresse a casa del governatore di Catanzaro e sul suo desco lanciò il macabro trofeo. Incassata la taglia, ritornò sui monti e di lei si perse ogni traccia.

Nella storia della calabrese Marianna Olivierio, detta “Ciccilla”, è  il sentimento della gelosia che fa esplodere la scelta della “brigantessa”: Ciccilla era una bellissima ragazza dalle lunghe e nere chiome e dagli occhi corvini. Sposa di Pietro Monaco, un ex soldato borbonico ed ex garibaldino, datosi al brigantaggio dopo un omicidio, non lo aveva inizialmente seguito. Subito dopo, colta da gelosia, – a dorso di mulo – raggiunse la banda del marito, divenendone addirittura il capo di fatto. Il raccapriccio che accompagnò le sue gesta si diffuse in tutto il circondario. Perfino i suoi stessi briganti ne ebbero terrore e disprezzo. Usava, ad esempio, infierire sui cadaveri dei nemici uccisi, mutilandoli atrocemente con coltelli e rasoi che portava sempre con sé. Catturata dopo la morte del marito, fu disconosciuta dai suoi stessi familiari. Ed è uno dei rarissimi, se non l’unico, caso di sentenza capitale per una donna.

La legislazione dell’epoca non prevedeva condanne differenziate per i due sessi ma l’orientamento dei giudici appariva quello di comminare condanne più lievi alle donne, anche in considerazione del fatto che quasi mai è possibile processualmente accertare la volontarietà nella scelta di delinquere. Le cronache giornalistiche e gli scrittori coevi le descrivono solo come  amanti, concubine, “ganze”, “drude”, donne di piacere dei briganti. Ciò ha impedito di prendere in considerazione il fenomeno e non ha consentito uno studio più approfondito sui risvolti sociali e politici della rivolta delle donne meridionali. Delle “brigantesse” restano oggi solamente le poche foto che la propaganda di regime ha voluto tramandare per una distorta lettura iconografica del brigantaggio. Così, accanto a “brigantesse” che si sono fatte ritrarre – armi in pugno – in abiti maschili, vi sono le foto ufficiali dopo la cattura e, talora, dopo la morte in una postura innaturale. Come i loro uomini, trucidati e frettolosamente rivestiti, legati ad un palo o ad una sedia, gli occhi rigidamente spalancati, con in mano i loro fucili e circondati dai loro giustizieri. Macabro trofeo di una guerra civile occultata. Ricordiamo per tutte Michelina De Cesare, che fu catturata e torturata affinché rivelasse i nomi dei partigiani meridionali e, visto che ella si rifiutava di farlo, fucilata e fotografata prima e dopo il supplizio (30 agosto 1868). ☺

 ninive@aliceposta.it

 

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