Aylan ci interroga
4 Ottobre 2015 Share

Aylan ci interroga

“Questo noi sappiamo: la terra non appartiene all’uomo, è l’uomo che appartiene alla terra. Tutte le cose sono collegate, come il sangue che unisce una famiglia. Non è stato l’uomo a tessere la tela della vita, egli ne è soltanto un filo. Qualunque cosa egli faccia alla tela, lo fa a se stesso” (Capo Seattle).

Molto si è scritto in questi ultimi giorni ed in maniera discordante sulla opportunità di mostrare le foto del piccolo Aylan, siriano morto annegato sulla spiaggia, nel fallito tentativo di raggiungere, insieme alla famiglia, l’isola di Kos. Le immagini hanno scosso le coscienze di molti. Il diritto di cronaca doveva prevalere sul diritto alla riservatezza? È stato giusto dare così tanto risalto alla morte e soprattutto alla triste e drammatica morte di un bambino? Non sarebbe stato meglio evitare la spettacolarizzazione di un evento doloroso che avrebbe dovuto, invece, rimanere un fatto privato?

Aylan era uno dei tanti bambini, e non solo, morti nel vano tentativo di trovare un destino migliore. Certo sarebbe stato sicuramente più semplice ignorare i fatti e vivere come se mai nulla fosse accaduto: “lontano dagli occhi lontano dal cuore”. E già lontano dal cuore. Il problema è proprio questo. Oggi siamo diventati così abituati alle notizie di cronaca, propinate senza schermi e senza veli ed a tutte le ore, anche in quelle protette, che nulla sembra più destarci emozioni. I volti dei poveri entrano nelle nostre case, nella generale indifferenza, attraverso il dramma dei migranti erranti nel vago tentativo di entrare in Europa. Una corretta informazione, invece, deve raccontare le storie, non scatenare paure e contrapposizioni di interessi, ma suggerire politiche di accoglienza. Respingere i migranti è un vero atto di guerra che causa vittime innocenti. Proverei, invece, a spostare la proiezione di visione ed i conseguenti interrogativi. Perché Aylan si trovava in quel luogo? Perché insieme alla sua famiglia scappava dalla sua terra? Perché la sua famiglia ha sfidato la morte? L’immagine, allora, assume un forte valore simbolico, condensa e riassume i fatti, oltre a porre una questione morale. Ha costretto i governi a varcare il muro del silenzio, obbligandoli ad aprire le frontiere. Ha acceso i fari, per riflettere, non solo emotivamente, ma con responsabilità e consapevolezza sui drammi odierni, non speculando ideologicamente sulle tragedie. La pubblicazione della foto ha “riumanizzato” le storie, ha dato un volto ai numeri. “Le famiglie ricche sono tutte uguali, le famiglie povere sono tutte diverse tra loro”.

Nell’era della globalizzazione siamo tutti coinvolti, le coscienze di ciascuno non possono più rimanere sopite. “Bisogna rafforzare la consapevolezza che siamo una sola famiglia umana. Non c’è spazio per la globalizzazione dell’indifferenza” (LS, n.53). Su molte zone del mondo, peraltro, si sono completamente spenti i riflettori, si pensi, per esempio, alla Somalia. I bambini somali non hanno diritti, sono ridotti in schiavitù, forzatamente reclutati da bande armate per operazioni di guerra, violati nel fisico e nello spirito, sottratti al diritto all’istruzione ed a tanti altri ancora. Il mutamento di condizioni geopolitiche, ambientali, sociali determina ed indirizza i fenomeni migratori delle popolazioni orientate a raggiungere i paesi più ricchi. Secondo Papa Francesco oggi assistiamo al “paradosso dell’abbondanza” – “c’è cibo per tutti, ma non tutti possono mangiare, mentre lo scarto… il consumo eccessivo e l’utilizzo di cibo per altri fini sono sotto gli occhi di tutti”.

La fame può essere la causa della guerra ovvero la guerra ha come conseguenza la fame. Peraltro la fame e la guerra non sono elementi imprevedibili, ma causate da scelte consapevoli. Aylan scappava dalla guerra per un istinto di sopravvivenza; per la sua giovane età non aveva conosciuto la pace. La costruzione della pace e la lotta alla povertà sono ancora obiettivi lontani. Se non s’interviene sulle cause per rimuovere i problemi nessun muro, nessun filo spinato sarà in grado di fermare gli esodi. Prioritario è non tanto dar voce a chi non ne ha, ma ascoltare la voce di chi non ne aveva. Verrebbe da dire: “Ma come si fa!” Proporrei, invece di trasformare la locuzione in interrogativo per tutti “Ma come si fa?”: attraverso la responsabilità operosa di ciascuno, l’educazione alla solidarietà, alla speranza ed alla condivisione. ☺

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