C’erano una volta i paesi
17 Gennaio 2018
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C’erano una volta i paesi

Sì, c’erano perché oggi sono quasi in via d’estinzione, non per colpa di qualcuno assolutamente. Persi fra le montagne o sulle colline, ultimi baluardi di una vita che ha il sapore vintage. Una vita che ho avuta la fortuna di assaporare per una decina d’anni, probabilmente gli anni più belli della mia esistenza.

Vivere un paese, significa non fermarsi mai, significa essere sempre a contatto con tutti, dove tutti sanno di tutti e conoscono tutti, dove tutti sono in qualche modo legati da una parentela che magari risale al tardo medioevo. Ci sono tradizioni di ogni genere da rispettare, dalla festa del raccolto, alla festa del santo protettore, a quella per l’elezione del nuovo sindaco. Non manca mai il cibo, rigorosamente a chilometro 0. Tutti hanno un piccolo orticello, dove si coltivano le verdure di stagione, dove si allevano un paio di galline e qualche pollo. Ci sono le piccole fiere, i piccoli mercati del martedì, dove ormai si ha un rapporto di fratellanza con il venditore ambulante al quale si cerca sempre di strappare qualche soldino in meno sulla merce da acquistare. C’è il camion della frutta che fa il giro del paese urlando al microfono parole incomprensibili che lo rendono riconoscibile a qualunque distanza. C’è il panettiere che fa il giro delle case per consegnare il pane, c’è il vigile che svolge le pubbliche relazioni con l’intero paese. Poi ci sono le figure di spicco, il sindaco, il medico condotto e il prete: sì, la trinità di ogni paese sono loro! Massimo rispetto verso queste tre cariche che reggono il paese. Le storie, le leggende, i nomignoli nati da piccoli espedienti, gli altari dedicati ai soldati che si immolarono per la patria nella Grande Guerra e nel II tragico conflitto mondiale. Eroi ed eroi le loro vedove o i loro orfani. I castelli o le case dei nobili, lì dove un tempo vissero piccoli aristocratici. I vicoli che hanno sempre qualche storia da raccontare, quei vicoli dove oggi passeggiano gatti su gatti, magari antichi antenati di quei gatti che servivano a tener pulito il paese dai roditori. Le storie dei nonni sulla guerra, sui vecchi amori, su come si tirava avanti un tempo senza neanche una lira. Le scuole dove le maestre utilizzano ancora un metodo di insegnamento retrò ma valido e utile. Le contrade dove sorgono piccole aziende agricole, a gestione familiare, i campi di grano, i boschi di noce e i piccoli valloni che scendono a valle, d’inverno ghiacciati, a primavera vivi e d’estate secchi. Le domenica, giorno sacro dedito alla chiesa e al pranzo. Donne di casa che si levano dal letto alle 5 del mattino per preparare il sugo, la pasta fresca e i dolci, così da poter andar poi alla messa delle 12 e alle 12 e 30 essere già a tavola con tutte le porzioni pronte, guai a tardare. Ci sono le nascite, molto rare che sono dei veri e propri eventi, processioni di gente che si reca a casa della neomamma per far omaggio al nascituro, in stile Gesù e i magi. I funerali, allo stesso modo, coinvolgono tutto il paese, la comunità si ferma, si rievocano ricordi, si fanno omaggi, spesso e volentieri orazioni funebri da parte di coloro che hanno trascorso l’intera vita assieme al defunto.

In poche parole il paese è un motore che non si spegne mai, anzi che non si spegneva mai. Ormai meglio rivolgersi al passato, tradizioni, costumi e paesani sono sempre più rari.

 

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