cittadinanza partecipe
31 Dicembre 2010 Share

cittadinanza partecipe

 

Le recenti battaglie civili e politiche nel Molise hanno fatto vedere quanto sia importante partecipare alle vicende che coinvolgono la collettività e prendere visione delle problematiche che affliggono la società civile. In questo particolare momento della storia nazionale e regionale sembra che il “vaso di Pandora” corra il rischio di scoperchiarsi e di vedere alla gogna tutti i filistei con Sansone. Infatti emergono, nella loro drammaticità sconvolgente, problemi quali l’impoverimento progressivo e generalizzato del ceto medio borghese e dei lavoratori dipendenti; l’ostracismo, ad opera del governo di Roma e del parlamento nazionale, della cultura, dell’educazione, della formazione e della ricerca scientifica; la molto ridotta operatività del sistema del welfare state; la sanità costosa e spesso imperita a danno dell’incolpevole cittadino; l’aggressione alle bellezze naturali, paesaggistiche e archeologiche del territorio da parte di gruppi affaristici spregiudicati e malavitosi, il cui unico obiettivo è il loro guadagno illecito sulla pelle delle poco intelligenti amministrazioni locali, dei contadini e delle loro famiglie angustiate, queste ultime, da una crisi economica molto preoccupante.

Sono proprio queste tematiche  ad aver alimentato il senso di una rinnovata partecipazione corale alle vicissitudini del paese legate anche queste all’attuale crisi del sistema democratico.

Una comunità si può chiamare con questo nome se mette insieme, rispetta e valorizza molteplici diversità al suo interno. Il concetto di “comunità” evoca quello della condivisione di una progettualità socio-economica che, come obiettivo, ha il bene della comunità stessa. Questo “bene” ad una comunità si assicura con il sostegno del più forte nei confronti del più debole; del fortunato nei confronti di chi la sorte ostacola malamente; è questa, dunque, una “forma fisiologica” dello stare insieme, del condividere e del “crescere”, dando consapevolmente a ciascuno il suo.  Riferendoci ad una comunità nazionale, dovremmo poter dire la stessa cosa, perché le sue parti sociali dovrebbero integrarsi per raggiungere un obiettivo comune, ossia il benessere della collettività. Se per “federalismo”, ad esempio, si intende tale tensione civile, allora vuol dire che l’organizzazione socio-economica obbedisce al dettato costituzionale e può davvero in questo modo essere lo strumento dello sviluppo  di una nazione e del progresso di un popolo. La verità è che oggi stiamo assistendo alla diffusione di una forma esasperata  di capitalismo, fondato sull’egoismo e sul dominio del “più forte” sul debole. Non è questo il concetto di “federalismo” che molta parte della collettività nazionale intende applicare ed è per questa ragione che il conflitto e la diversità emergono, spingendo alla contrapposizione – nord contro sud -, al tentativo di imporre la logica del più ricco, unico capace di guidare  il paese ma anche di dividerlo sulla base delle ricchezze prodotte (per esempio, la Padania o il centro-nord più in generale). Siamo convinti che, se si perdono il senso e l’orientamento civile e culturale della compartecipazione ad un destino comune, ad una storia condivisa, allora si apre il gorgo dell’arretramento civile rispetto alle conquiste sindacali e quello ancora più tragico dei conflitti che possono presagire una balcanizzazione del paese e quindi una divisione che preannuncia anche una conflittualità violenta fra il nord e il sud del paese. Il nostro è un paese la cui unità “nazionale” è stata conseguita” in seguito ad un “vulnus” grave (le note “annessioni” risorgimentali) che tanti dolori, sacrifici e morti innocenti ha comportato; ma tale sofferenza civile la Resistenza contro il nazifascismo e la promulgazione della Carta Costituzionale, andata in vigore nel gennaio del 1948, hanno fatto superare, saldando una nazione che così è rinata su principi, universalmente condivisi perché profondamente discussi nella fase costituente. Oggi, invece, tali principi vengono contestati sull’onda di un nuovismo che è solo una scelta di classe egoistica, miope – il ricco nord contro il sud straccione, povero ed incapace di autogestire le sue naturali risorse, e a volte anche utopista e sognatore -.

Noi siamo convinti che in Italia le classi dirigenti che si sono succedute in questi ultimi vent’anni – prima e seconda Repubblica, quindi, di centro-sinistra e di destra – non siano state capaci di dare una positiva soluzione a molti problemi – quali il lavoro, l’ambiente, il welfare state, la scuola, la sanità, etc.-,  in quanto hanno obbedito quasi esclusivamente al detto popolare “tiramme a campà…”, come comunemente si dice nel nostro Sud. È evidente che è mancata una vera programmazione industriale, altrimenti non ci troveremmo a costatare o a gestire il fallimento indecoroso e degradante dei “rifiuti” (non solo campani ma anche  di altre regioni d’Italia), l’amara visione dell’aggressione selvaggia del territorio, la sconcertante negazione di una crisi economica ben peggiore di quella di Wall Street del 1929, la spiacevole e penosa, almeno per noi, consapevolezza di vederci amministrati da una classe dirigente servile al padrone di turno (questi domina la scena nazionale da almeno 20 anni e più, ossia dalla diffusione di quella controcultura devastante che è stato il craxismo!), voltagabbana ed egoista, nonché, in buona parte, corrotta e collusa con le organizzazioni malavitose. ☺

bar.novelli@imcso.net

 

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