Crisi della democrazia
14 Marzo 2019
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Crisi della democrazia

“Non c’è peggior cieco di chi non vuole vedere”, questo penso quando leggo e ascolto tanti commenti sulle elezioni abruzzesi. Secondo diversi raffinati analisti politici i risultati elettorali sarebbero la prova della presenza nella società italiana di un’area moderata che reclama disperatamente un riferimento politico. Persino Padellaro, ex direttore de il Fatto quotidiano e oggi autorevole giornalista dello stesso quotidiano, criticando i Cinque stelle, ha affermato nella trasmissione della Gruber che gli italiani chiedono “responsabilità e serenità”. Riepilogo i dati elettorali abruzzesi per i distratti. In Abruzzo la Lega, Fratelli d’Italia e i Cinque stelle (le forze dichiaratamente populiste) insieme hanno preso il 55% dei votanti, poi vi è un 48% degli aventi diritto che non è andato a votare e che definire moderati sarebbe una grande sciocchezza. Il fronte della moderazione si riduce, ad essere ottimisti, neppure al 30% del voto del candidato del centro-sinistra, perché nel voto su Legnini vi è stata anche la convergenza della sinistra radicale e discutibilmente a quel 9% di Forza Italia che con il moderato Tajani ha rivendicato in questi giorni l’Istria e la Dalmazia all’Italia.

Il populismo, come scrive Marco Revelli “è malattia infantile della democrazia, quando i tempi della politica non sono ancora maturi. È malattia senile della democrazia, quando i tempi della politica sembrano essere finiti. Come ora, qui, non solo in Italia”.

I populismi, i sovranismi, le tentazioni razziste, il qualunquismo antisistema, l’odio verso i partiti e il discredito delle istituzioni non sono un incidente di percorso di un sistema democratico in buona salute, sono al contrario il risultato di una crisi profonda della nostra democrazia, hanno ragioni ben solide e che vanno ben oltre i confini nazionali.

La madre di tutte le ragioni dell’attuale stato di cose è la globalizzazione economica, finanziaria e commerciale di questi ultimi trenta anni. Una rivoluzione che è iniziata a metà degli anni ‘70 e che ha modificato la base materiale, i fondamentali del sistema mondo.

Con la globalizzazione si è rotto il binomio storico fra capitale e forza lavoro, fra imprenditore e lavoratore. Il Capitale è divenuto il Dominus assoluto, i sindacati hanno perso la loro forza contrattuale, i diritti nel mondo del lavoro e le conquiste sociali del dopoguerra sono regrediti profondamente.

Il secondo aspetto di questa rivoluzione del capitalismo è il mutamento della natura delle nostre democrazie. Con la globalizzazione il Potere si è mosso oltre i confini nazionali, è divenuto sempre più astratto, lontano dalle società e dai luoghi del lavoro. Nella sostanza la democrazia è divenuta sempre più un esercizio utile solo a chi faceva politica, ha perso la connessione sentimentale con i cittadini, è divenuta sempre più una finzione.

All’inizio degli anni 2000 vi furono grandi movimenti di sinistra critici con la globalizzazione, ma questi movimenti furono come Giovanni Battista nel deserto. Nessuno raccolse le loro proteste, tantomeno la sinistra democratica e socialdemocratica totalmente persa nella cultura e nelle politiche neoliberali – neoliberiste.

La situazione era grave ma ancora precaria e non irrimediabilmente compromessa. Ciò che ha fatto precipitare il fragile equilibrio sociale di quegli anni, ciò che ha aperto le porte ai populismi furono altri due fattori: la crisi economica del 2008 e la moltiplicazione geometrica delle diseguaglianze. Interi e vasti settori sociali sino a ieri “privilegiati” con la crisi economica sono andati ad ingrandire le fila dei quasi poveri e degli stessi poveri. Il mondo giovanile per una sua gran parte si è trovato in una terra di nessuno, disoccupato e senza lavori accettabili, senza dignità e senza futuro. Abbiamo avuto una gravissima emergenza sociale resa ancor più odiosa dalle enormi diseguaglianze: nel mondo, secondo il rapporto Oxfam, i 61 più ricchi possiedono una ricchezza pari al 50% dell’umanità, in Italia il 20% possiede una ricchezza pari al 70% della società italiana. Dunque una crisi sociale gravissima e sul banco degli imputati è finita quella classe dirigente – di centro e di sinistra – che nulla aveva fatto per impedire la crisi o per renderla meno dolorosa. L’Europa che sarebbe stata la via maestra per avere una globalizzazione dal volto umano, dopo la moneta unica si è persa nel labirinto dei tecnocrati e dei miopi interessi nazionali.

Il populismo di destra, l’odio verso gli immigrati e i Rom, l’ignoranza che sembra essere divenuta una virtù, il linciaggio della politica e delle istituzioni non sono quindi degli accidenti casuali, ma la logica conseguenza di questo stato di cose. Pensare che la sconfitta durissima dei Cinque stelle in Abruzzo come in Sardegna sia il segno di un mutamento profondo dei sentimenti e degli orientamenti del popolo è una pia illusione. Non solo perché la crisi dei grillini, come è evidente, è capitalizzata da Salvini che dei due consoli è il peggiore, ma anche perché se non si affrontano con la radicalità necessaria le povertà e le diseguaglianze dei nostri tempi, nulla di buono si muoverà sul versante democratico e di sinistra. Quel che declina con la sconfitta dei Cinque stelle è quel populismo di sinistra che nella originaria predicazione di Grillo era presente e che si è perso totalmente nelle nebbie del governo giallo-verde, ma di ciò ci occuperemo nel prossimo numero.☺

 

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