Se chiedessimo ad un adolescente se abbia mai sentito o incontrato il vocabolo inglese fighter [pronuncia: faiter], credo che la sua risposta sarebbe affermativa: ciò spiegherebbe non tanto che il bagaglio lessicale dei nostri giovani è ricco quanto piuttosto che essi conoscono ed apprezzano quei passatempi detti “videogiochi” i cui temi sono spesso a sfondo bellico.
Fighter, dal verbo inglese fight [pronuncia: fait], significa “combattente, colui che lotta”; termine del campo semantico militare, è tornato prepotentemente di moda in questi ultimi mesi. Lo si utilizza infatti accompagnato all’aggettivo foreign [pronuncia: foren], straniero, e l’intera locuzione foreign fighter sta ad indicare quelle persone, amanti delle “arti guerresche” che decidono di arruolarsi in formazioni paramilitari, di nazioni diverse dalla propria, al solo scopo di dare libero sfogo alla propria inclinazione per le azioni belliche o di guerriglia. La complessa vicenda mediorientale, non ultimi gli episodi di violenza che hanno avuto per teatro la capitale francese, ci invitano a riflettere su temi che spesso accantoniamo o di cui ci disinteressiamo. Le cronache nostrane riferiscono anche di nostri connazionali che hanno fatto questa scelta e che si sono dedicati a coltivare questa loro discutibile “passione”.
Una condizione, a mio parere, non esente da critiche, deprecabile sotto tutti i punti di vista da parte di chi – come il sottoscritto – si è sempre schierato sul versante della nonviolenza. Ma l’uso dell’espressione inglese mi suggerisce una ancor più sconsolata considerazione: siamo proprio sicuri che ricorriamo alla lingua straniera per servirci di un codice di comunicazione universale che raggiunga tutti, oppure usiamo il vocabolo inglese, proprio perché non è comprensibile a chiunque, per lasciar passare o avallare una scelta non sempre condivisibile? La società odierna, così mediaticamente dipendente, sembra non scandalizzarsi più di fronte alle parole di particolari campi semantici; il loro uso diviene una consuetudine che ci esonera dalla riflessione sull’effettivo valore “morale” dei termini che usiamo.
E ancora fighter rimanda ad una visione dell’uomo e dei rapporti con i propri simili che ci porta indietro nel tempo e al di fuori della storia. Il richiamo è agli eroi dell’epica classica, a quei personaggi che attraverso i versi dei poeti antichi sono stati raccontati e quindi conosciuti dalle generazioni successive. A ben guardare però questi “eroi”, che ai nostri occhi appaiono quasi intoccabili, sono in realtà ritratti di persone con cui non sarebbe piacevole avere a che fare: Achille o Ulisse, il primo un nevrotico dal carattere intrattabile; il secondo, suscettibile e rancoroso, capace di covare odio eterno verso chi gli ha fatto un torto. Espressioni di un mondo lontano nel tempo e nello spirito, fuori della storia, possono rappresentare un modello per la nostra contemporaneità?
All’antico si torna ogni volta che si verifica quel fenomeno che i sociologi chiamano “anomia”, una mancanza di norme che genera disorientamento, incertezza, angoscia. Il che accade sia nei momenti di grande espansione che in quelli di crisi, due fenomeni che oggi coesistono: da un canto, alcuni anni fa, la new economy, l’apertura di grandi frontiere allo sviluppo, un’economia mondiale comunque ancora in crescita; dall’altra guerre, stragi etniche, terrorismo (Eva Cantarella).
In un mondo che sta diventando sempre meno comprensibile, un mondo scappato di mano, come lo ha definito il sociologo Anthony Giddens, fa la sua ricomparsa la figura del “combattente” che altro non è che il risultato di una visione distorta dei rapporti umani, di situazioni ambientali e di condizionamenti mediatici che inducono le persone, magari alla disperata ricerca di un posto nel tradizionale mondo del lavoro, a cercare sbocchi altrove.
Fight, lotta: il termine possiede un duplice significato sul piano morale. Può essere, come purtroppo accade, sinonimo di violenza, oppressione, fanatismo; potrebbe invece rivestirsi di positività – e gli esempi non mancano – quando si traduce in azioni, non violente, volte ad eliminare ingiustizie, soprusi, disuguaglianze.☺
Se chiedessimo ad un adolescente se abbia mai sentito o incontrato il vocabolo inglese fighter [pronuncia: faiter], credo che la sua risposta sarebbe affermativa: ciò spiegherebbe non tanto che il bagaglio lessicale dei nostri giovani è ricco quanto piuttosto che essi conoscono ed apprezzano quei passatempi detti “videogiochi” i cui temi sono spesso a sfondo bellico.
Fighter, dal verbo inglese fight [pronuncia: fait], significa “combattente, colui che lotta”; termine del campo semantico militare, è tornato prepotentemente di moda in questi ultimi mesi. Lo si utilizza infatti accompagnato all’aggettivo foreign [pronuncia: foren], straniero, e l’intera locuzione foreign fighter sta ad indicare quelle persone, amanti delle “arti guerresche” che decidono di arruolarsi in formazioni paramilitari, di nazioni diverse dalla propria, al solo scopo di dare libero sfogo alla propria inclinazione per le azioni belliche o di guerriglia. La complessa vicenda mediorientale, non ultimi gli episodi di violenza che hanno avuto per teatro la capitale francese, ci invitano a riflettere su temi che spesso accantoniamo o di cui ci disinteressiamo. Le cronache nostrane riferiscono anche di nostri connazionali che hanno fatto questa scelta e che si sono dedicati a coltivare questa loro discutibile “passione”.
Una condizione, a mio parere, non esente da critiche, deprecabile sotto tutti i punti di vista da parte di chi – come il sottoscritto – si è sempre schierato sul versante della nonviolenza. Ma l’uso dell’espressione inglese mi suggerisce una ancor più sconsolata considerazione: siamo proprio sicuri che ricorriamo alla lingua straniera per servirci di un codice di comunicazione universale che raggiunga tutti, oppure usiamo il vocabolo inglese, proprio perché non è comprensibile a chiunque, per lasciar passare o avallare una scelta non sempre condivisibile? La società odierna, così mediaticamente dipendente, sembra non scandalizzarsi più di fronte alle parole di particolari campi semantici; il loro uso diviene una consuetudine che ci esonera dalla riflessione sull’effettivo valore “morale” dei termini che usiamo.
E ancora fighter rimanda ad una visione dell’uomo e dei rapporti con i propri simili che ci porta indietro nel tempo e al di fuori della storia. Il richiamo è agli eroi dell’epica classica, a quei personaggi che attraverso i versi dei poeti antichi sono stati raccontati e quindi conosciuti dalle generazioni successive. A ben guardare però questi “eroi”, che ai nostri occhi appaiono quasi intoccabili, sono in realtà ritratti di persone con cui non sarebbe piacevole avere a che fare: Achille o Ulisse, il primo un nevrotico dal carattere intrattabile; il secondo, suscettibile e rancoroso, capace di covare odio eterno verso chi gli ha fatto un torto. Espressioni di un mondo lontano nel tempo e nello spirito, fuori della storia, possono rappresentare un modello per la nostra contemporaneità?
All’antico si torna ogni volta che si verifica quel fenomeno che i sociologi chiamano “anomia”, una mancanza di norme che genera disorientamento, incertezza, angoscia. Il che accade sia nei momenti di grande espansione che in quelli di crisi, due fenomeni che oggi coesistono: da un canto, alcuni anni fa, la new economy, l’apertura di grandi frontiere allo sviluppo, un’economia mondiale comunque ancora in crescita; dall’altra guerre, stragi etniche, terrorismo (Eva Cantarella).
In un mondo che sta diventando sempre meno comprensibile, un mondo scappato di mano, come lo ha definito il sociologo Anthony Giddens, fa la sua ricomparsa la figura del “combattente” che altro non è che il risultato di una visione distorta dei rapporti umani, di situazioni ambientali e di condizionamenti mediatici che inducono le persone, magari alla disperata ricerca di un posto nel tradizionale mondo del lavoro, a cercare sbocchi altrove.
Fight, lotta: il termine possiede un duplice significato sul piano morale. Può essere, come purtroppo accade, sinonimo di violenza, oppressione, fanatismo; potrebbe invece rivestirsi di positività – e gli esempi non mancano – quando si traduce in azioni, non violente, volte ad eliminare ingiustizie, soprusi, disuguaglianze.☺
Se chiedessimo ad un adolescente se abbia mai sentito o incontrato il vocabolo inglese fighter [pronuncia: faiter]
Se chiedessimo ad un adolescente se abbia mai sentito o incontrato il vocabolo inglese fighter [pronuncia: faiter], credo che la sua risposta sarebbe affermativa: ciò spiegherebbe non tanto che il bagaglio lessicale dei nostri giovani è ricco quanto piuttosto che essi conoscono ed apprezzano quei passatempi detti “videogiochi” i cui temi sono spesso a sfondo bellico.
Fighter, dal verbo inglese fight [pronuncia: fait], significa “combattente, colui che lotta”; termine del campo semantico militare, è tornato prepotentemente di moda in questi ultimi mesi. Lo si utilizza infatti accompagnato all’aggettivo foreign [pronuncia: foren], straniero, e l’intera locuzione foreign fighter sta ad indicare quelle persone, amanti delle “arti guerresche” che decidono di arruolarsi in formazioni paramilitari, di nazioni diverse dalla propria, al solo scopo di dare libero sfogo alla propria inclinazione per le azioni belliche o di guerriglia. La complessa vicenda mediorientale, non ultimi gli episodi di violenza che hanno avuto per teatro la capitale francese, ci invitano a riflettere su temi che spesso accantoniamo o di cui ci disinteressiamo. Le cronache nostrane riferiscono anche di nostri connazionali che hanno fatto questa scelta e che si sono dedicati a coltivare questa loro discutibile “passione”.
Una condizione, a mio parere, non esente da critiche, deprecabile sotto tutti i punti di vista da parte di chi – come il sottoscritto – si è sempre schierato sul versante della nonviolenza. Ma l’uso dell’espressione inglese mi suggerisce una ancor più sconsolata considerazione: siamo proprio sicuri che ricorriamo alla lingua straniera per servirci di un codice di comunicazione universale che raggiunga tutti, oppure usiamo il vocabolo inglese, proprio perché non è comprensibile a chiunque, per lasciar passare o avallare una scelta non sempre condivisibile? La società odierna, così mediaticamente dipendente, sembra non scandalizzarsi più di fronte alle parole di particolari campi semantici; il loro uso diviene una consuetudine che ci esonera dalla riflessione sull’effettivo valore “morale” dei termini che usiamo.
E ancora fighter rimanda ad una visione dell’uomo e dei rapporti con i propri simili che ci porta indietro nel tempo e al di fuori della storia. Il richiamo è agli eroi dell’epica classica, a quei personaggi che attraverso i versi dei poeti antichi sono stati raccontati e quindi conosciuti dalle generazioni successive. A ben guardare però questi “eroi”, che ai nostri occhi appaiono quasi intoccabili, sono in realtà ritratti di persone con cui non sarebbe piacevole avere a che fare: Achille o Ulisse, il primo un nevrotico dal carattere intrattabile; il secondo, suscettibile e rancoroso, capace di covare odio eterno verso chi gli ha fatto un torto. Espressioni di un mondo lontano nel tempo e nello spirito, fuori della storia, possono rappresentare un modello per la nostra contemporaneità?
All’antico si torna ogni volta che si verifica quel fenomeno che i sociologi chiamano “anomia”, una mancanza di norme che genera disorientamento, incertezza, angoscia. Il che accade sia nei momenti di grande espansione che in quelli di crisi, due fenomeni che oggi coesistono: da un canto, alcuni anni fa, la new economy, l’apertura di grandi frontiere allo sviluppo, un’economia mondiale comunque ancora in crescita; dall’altra guerre, stragi etniche, terrorismo (Eva Cantarella).
In un mondo che sta diventando sempre meno comprensibile, un mondo scappato di mano, come lo ha definito il sociologo Anthony Giddens, fa la sua ricomparsa la figura del “combattente” che altro non è che il risultato di una visione distorta dei rapporti umani, di situazioni ambientali e di condizionamenti mediatici che inducono le persone, magari alla disperata ricerca di un posto nel tradizionale mondo del lavoro, a cercare sbocchi altrove.
Fight, lotta: il termine possiede un duplice significato sul piano morale. Può essere, come purtroppo accade, sinonimo di violenza, oppressione, fanatismo; potrebbe invece rivestirsi di positività – e gli esempi non mancano – quando si traduce in azioni, non violente, volte ad eliminare ingiustizie, soprusi, disuguaglianze.☺
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