Dolore e rabbia
7 Settembre 2018
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Dolore e rabbia

Avrei dovuto completare il trittico su “cultura e competenze”, ma gli ultimi avvenimenti, il terremoto nel Basso Molise, con epicentro a Montecilfone, e il disastro genovese con il crollo del ponte Morandi, fatti che hanno suscitato in Molise ed in Italia dolore e rabbia, mi suggeriscono con garbo di fermarmi un poco su queste due parole, che esprimono ed indicano nello stesso momento un variegato complesso di riflessioni. Sto razionalizzando in questo ultimo periodo, con dolorosa amarezza, il convincimento che l’Italia sia un paese malato, direi sfinito nella sua malattia, ma, come spesso capita a chi è oppresso da morbi, pur semplici e superficiali, incapace di stringere i denti e di recuperare quel minimo di buon senso da cui trarre la dignitosa accettazione della malattia ed immaginare di curarla per guarire, infine.

L’Italia è un paese affetto dal morbo della corruzione, della superficialità del pensare e dell’agire, della perdita di ogni orientamento etico, del rifiuto della politica che è additata nella sua complessiva attuazione come inefficace, corrotta, antipopolare, intendendo con quest’ultima affermazione una politica (il mondo politico) succube delle teorie neoliberiste, delle banche private e dei grandi gruppi imprenditoriali internazionali. L’Italia sta perdendo da decenni pezzi di civiltà, di dignità culturale e si bea, si compiace di questa diminuzione di civile responsabilità, dando la stura a sentimenti e comportamenti radicalmente razzisti (come quelli sui migranti, sui poveri straccioni che vivono nelle metropoli ed in periferia, ai margini della società, e sull’universo gay nel suo complesso), quasi senza accorgersene, perché resa incapace di razionale autoanalisi da una spaventosa e virulenta crisi economica e finanziaria, scoppiata fin dal 2007.

Ho presente la questione dei migranti, le immagini della morte in mare di centinaia e di migliaia di uomini, donne e bambini anche, senza che una parte cospicua della popolazione italiana mostri un minimo di comprensione e di compartecipazione alle vicissitudini e alle sofferenze di quanti si mettono sui barconi, volendosi allontanare dalla povertà assoluta, nella quale vivono nei loro paesi, dalle guerre civili, dall’aberrante politica dei loro “podestà”, dei loro crudeli e sanguinari tiranni, che a loro volta sono proni dinanzi al neocapitalismo del nord del mondo, dinanzi ai colossi delle banche, divenute padroni di intere e sconfinate regioni del cosiddetto (terzo e quarto) mondo sottosviluppato. Dolore e rabbia, dicevamo, stati d’animo che spesso si accompagnano, influenzandosi e completandosi a vicenda. Questi moti dell’animo, questi forti sentimenti si sono espressi sincroni nella loro crudezza dinanzi al crollo del ponte Morandi a Genova il 14 agosto scorso.

Chi può precludere nel proprio animo l’espressione del dolore che scaturisce dalla tragedia immane della morte di più di 40 persone e del ferimento di altre, morte che non era prevista in quelle modalità? Morte improvvisa e vorace, in cui la sua voracità sarebbe stata originata da un probabile scarso controllo sui tiranti (gli stralli) del ponte nella sua parte centrale? La manutenzione di un’opera utile all’economia di Genova, alla tessitura dei rapporti quotidiani tra una parte della città e l’altra, a quel normale scambio di civili legami e relazioni tra la popolazione di una delle città più importanti nella storia d’Italia e del Mar Mediterraneo, città che ha il porto civile e commerciale più rilevante del Mediterraneo, ebbene la conservazione e la gestione delle infrastrutture non devono essere affidate a privati e sacrificate all’idolo del profitto, perché la città subirebbe, come ha subìto, una sventura dalla quale potrebbe molto difficilmente riprendersi. Il dolore acuisce la rabbia e non la stempera, se non è razionalizzata, ossia incanalata in una direzione che pretenda la riparazione completa del danno e della tragedia e la punizione di quanti hanno abdicato al loro compito di controllo e di vigilanza. Un asse stradale fondamentale sbriciolato in quel modo grida non vendetta ma sicuramente giustizia per la città e per quelle centinaia di famiglie costrette ad abbandonare le loro abitazioni! E non bisogna far passare sotto silenzio il fatto che il ponte Morandi sia stato costruito sopra quei palazzi, già molto prima edificati ed abitati prevalentemente da una dignitosa classe operaia. Al danno, irreparabile pare allo stato attuale, si è aggiunta la beffa amara che si è abbattuta sopra quelle famiglie sfollate…

Dunque, deve esserci questo salto di qualità rivolto al senso di giustizia riparatrice nei confronti della città e della sua popolazione. Il Governo deve amministrare e ben governare il Paese e non scambiare la sua sede romana come la succursale di un partito o di un movimento dove, per l’appunto, alcuni ministri fungono da segretari di partito, solo tutori dei loro programmi reclusi nel cosiddetto “contratto di governo”. Bisogna sì rimettere in discussione l’operato di Autostrade Italia, ma all’interno di un più ampio processo che veda nel suo nucleo centrale un approfondimento relativo ai beni patrimoniali della collettività nazionale che sono stati svenduti ai privati fin dalla fine degli anni ‘80 del secolo scorso, sacrificati all’idea di una loro più efficace funzionalità rispetto a quanto si pensava (e si pensa tuttora!) se in mano alle varie amministrazioni dello Stato. Questa è stata ed è ancora una pura favola, in quanto lo smantellamento dei beni patrimoniali nazionali è stato voluto non dalla incapacità dello Stato di gestirli, ma dalla rapace politica finanziaria dei grandi colossi mondiali della finanza, complice il centrosinistra degli anni passati. Il risultato? Milioni e milioni di persone, anzi nazioni intere debbono fare i conti col progressivo impoverimento di una stragrande maggioranza delle loro popolazioni, al cui interno non esiste più quella classe borghese media, da sempre, ossia fin dalle rivoluzioni liberali e progressiste di fine Settecento, nerbo fondamentale delle nazioni che da quelle esperienze storiche si sono affermate.

Ma allora cosa fare? Da dove cominciare? Non sono affatto sconfortato, perché da sempre segmenti, anche cospicui, di società civile esprimono la capacità e la voglia di una rinascita etica, culturale, civile, politica che li faccia uscire fuori da questa melma di sbruffonerie, di rapacità ed ingordigia politiche nella quale siamo costretti, nostro malgrado, a vivere ad opera di gruppi impolitici e nazionalisti, votati purtroppo dalla maggioranza dei votanti, che fa dell’impolitica il proprio credo e il proprio mantra. Quali gli esempi di ripresa e di rinascita? Le magliette rosse (su iniziativa di Libera) dell’inizio del mese di luglio scorso che hanno visto scendere in piazza, nei nostri borghi e nelle nostre metropoli, centinaia di migliaia di cittadine/i a gridare forte il proprio sdegno per i respingimenti in mare di migranti, poveri, derelitti, infelici, oppressi nei loro paesi, che la politica del governo nazionale applica a seguito anche del teorema Minniti del centrosinistra.

Questa è sicuramente la strada da percorrere: stare tra la gente, attraversare in lungo ed in largo il proprio territorio, cercando di individuarne le criticità che esso presenta e risolverle.

Ventate

di entusiasmo

Il Gay Pride del Molise ha rappresentato una ventata di primaverile entusiasmo per la politica al grido giovanile (di tre/quattro mila giovani a CB) “Non svendiamo i diritti civili!”, “Non rinunciamo alla democrazia partecipata e responsabile”, “Vogliamo una società giusta”, che può rappresentare il segno di un rinnovato innamoramento dei giovani verso la Politica.

La manifestazione cittadina e regionale a Casacalenda il 12 agosto scorso in cui diverse centinaia di cittadine/i hanno richiesto maggiori finanziamenti ed attenzione da parte dell’amministrazione regionale nei confronti delle persone che soffrono di disturbi mentali e delle strutture che, ospitandole, le curano con paziente fervore.

Non dobbiamo neppure far passare sotto silenzio le tante iniziative artistico/musicali che, percorrendo il Molise, riescono a raccogliere fondi per alcune popolazioni africane e a contribuire così a far costruire scuole, a scavare pozzi di acqua potabile, ad alimentare una rinnovata affezione verso la propria terra, che in questo modo potrebbe far conoscere alle popolazioni autoctone una nuova stagione politica come quella delle decolonizzazioni dei paesi africani a partire dalla fine degli anni ‘60 e dalla metà degli anni ‘70 del Novecento ☺

 

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