Il gelso
5 Luglio 2014 Share

Il gelso

Del gelso, appartenente alla famiglia delle Moracee, si conoscono due specie: quello nero (Morus nigra), molto apprezzato per i suoi frutti dolci e saporiti, e quello bianco (Morus alba), di cui, in passato, si utilizzavano le foglie per l’allevamento del baco da seta. I frutti, conosciuti come “more di gelso”, botanicamente sono dei sorosi, simili a quelli dei rovi, ed è proprio il loro colore, nero o bianco, che attribuisce il nome alle due specie. Entrambe le specie sono originarie della Cina e dell’Asia centrale, da dove vennero introdotte in Europa, rispettivamente intorno al IX e al XV secolo. Nero o bianco che sia, il gelso è un albero rustico di facilissima coltura e di poche esigenze; talvolta è coltivato anche a scopo ornamentale per le belle foglie di colore verde lucente: altra caratteristica che accomuna le due specie è proprio la produzione di un bel fogliame, che in autunno assume una intensa colorazione gialla.

In realtà esiste anche una terza varietà, dall’insolita colorazione del frutto bianco-rosato: la “sangue e latte”, presente nelle campagne delle regioni dell’Italia meridionale, dove viene molto apprezzata dalle popolazioni locali.

Un’altra pianta che non si può fare a meno di menzionare è il “gelso da carta” (Broussonetia papyrifera), detto così perché la sua corteccia era usata per ottenere la carta. È stata introdotta in Francia, sempre dall’Asia, nel 1751, dal botanico francese Broussonet, da cui prese il nome. Si tratta di una specie dioica, una specie in cui i fiori maschili e femminili sono portati da piante diverse come nell’actinidia. Due esemplari di questo magnifico albero sono presenti nella piazza di Bonefro. Uno di essi, quello femminile, produce dei frutti sferici rossi e molli che sono commestibili.

Nella simbologia a questa pianta vengono attribuite pazienza e intelligenza: è infatti l’ultima a fiorire e sfugge così alle gelate. Spesso viene raffigurata intrecciata al mandorlo a significare che bisogna unire l’efficienza alla pazienza. Tale simbolismo è perfettamente esplicato proprio dall’intreccio tra il mandorlo che è il primo a fiorire, in modo “affrettato”, con forti rischi di subire danni dalle gelate di fine inverno, e il gelso, che è invece l’ultimo delle caducifoglie a fiorire.

Le prime more maturano a fine giugno e la maturazione si protrae anche fino a tutto agosto con una raccolta molto scalare; a maturazione completa poi le more si distaccano con tutto il peduncolo. I frutti vanno consumati allo stato fresco, subito dopo la raccolta; possono essere comunque utilizzati per numerosi altri scopi diversi dal consumo diretto: preparazione di sciroppi, marmellate, gelatine. In Sicilia le more vengono utilizzate sia come frutta da tavola che come componente di dolci e guarnizioni. Famosa è la granita di gelsi.

Allo stato fresco questi frutti presentano un buon contenuto in zuccheri, vitamine C, B e carotenoidi. In fitoterapia, dalle gemme e dal fogliame del gelso bianco si ricava un estratto impiegato come ipoglicemizzante. La corteccia, dalle proprietà antibatteriche, un tempo veniva masticata contro la carie, mentre gli estratti della radice hanno funzione di anti stress. Il legno di questa pianta, in Emilia Romagna, è fondamentale per la produzione dell’aceto balsamico tradizionale di Modena, ed è utilizzato per la costruzione di botti che conferiscono un particolare aroma al prodotto.

Molti sono i miti e le leggende che vedono il gelso protagonista: la più celebre è quella raccontata da Ovidio nel IV libro delle Metamorfosi, secondo la quale Tisbe e Pìramo, due giovani innamorati, si uccisero sotto l’albero del gelso. Del loro sangue si colorarono le more carnose, il cui succo rossastro testimonierebbe la tragica fine ricordata anche da Shakespeare nel Sogno di una notte di mezza estate. L’amore dei due giovani era ostacolato dalle rispettive famiglie, ma, incuranti delle proibizioni, essi fissarono un appuntamento all’ombra di un gelso carico di frutti bianchi. Per prima giunse Tisbe, la quale, impaurita da una leonessa, si rifugiò in una grotta perdendo il velo. La leonessa, con il muso già sanguinante per l’uccisione di una preda, s’imbatté nel velo, e con le fauci lo strappò macchiandolo di sangue. Pìramo, giunto sul posto, non vedendo l’amata e scorgendo il velo insanguinato, pensò che Tisbe fosse morta e si pugnalò. Tisbe, uscita dalla grotta, a sua volta vide Pìramo a terra agonizzante e, presa dalla disperazione, anche lei si pugnalò.

Anticamente, nel giorno dell’ Ascensione, quaranta giorni dopo la Pasqua, veniva portato in processione un ramo di gelso per esporre simbolicamente alla benedizione del Signore tutte le foglie dei gelsi, al fine di assicurare la prosperità dei bachi da seta, dei quali le foglie di gelso sono nutrimento.

Nella cultura popolare le more figurano nel famoso detto “Aspettare le more di maggio”, ovvero aspettare inutilmente chi non viene, ma anche attendere qualcosa e non far nulla per conseguirla.

Nel dialetto bonefrano, l’espressione ’nu cèv’ze equivale a “proprio un bel tipo”! Nel senso che si tratta di persona cattiva ed astuta che vorrebbe farsi credere ingenua e semplicione.  ☺

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