Immagini e corpi
8 Marzo 2016
laFonteTV (3191 articles)
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Immagini e corpi

 

Siamo cresciuti attraverso azioni fatte sul corpo e con il corpo: il modo con cui si sono presi cura di noi, sono entrati in con-tatto con la nostra pelle, accarezzandola, toccandola, sentendola, ascoltandola. Oggi, nel tempo del virtuale, ci troviamo di fronte alla “perdita” di quel corpo reale che pensavamo di conoscere. Esso si è tras-formato divenendo un mezzo che può attraversare lo spazio e il tempo, alla ricerca dell’eternità. “Corpi plastificati e siliconati sanciscono la fine di ogni storia che la vita incide sulla pelle. È la nascita del corpo banalizzato, anonimo, vuoto: senza età, sesso, storia, memoria? Costruito, modificato, rifiutato, clonato, amato, odiato, esibito, riprodotto: il corpo si è fatto, sempre più, un oggetto al pari di tanti altri che possiamo ritoccare o rendere invisibile con un movimento istantaneo del dito sul mouse, un clic” (Alberici 2000).

La realtà corporea ritorna almeno, quando vedo immagini, video di qualcuno che mi appartiene, mi è vicino, fratello, amico? O lo vediamo estraneo? Quella identità che viene data dal contatto, dall’ inesprimibile gocciolina che vediamo sulla nuca, (l’odore di tabacco, o il suo odore, il fremere degli occhi, la ruga dura sulla fronte o agli angoli della bocca, due solchi sorridenti, pagliuzze quando ride; sì sono loro i miei segni e so cosa sentivano, pensavano,amavano!) dalla ferita squarciata, dai lividi, dall’inespressa statuarietà della morte di chi prima, un attimo, un giorno, due, un mese fa era accanto vivo carezze baci ma che non è quello che  sorride da quell’immagine?

Vado quindi alla ricerca di me e di queste sensazioni pulsioni attraverso le foto e poi mi immergo come palombaro. Ma mentre guardo questo fantasma a me lontano e irriducibilmente estraneo mi si affiancano devozionalmente odori colori e suoni di quel momento, di quell’attimo che circondavano quella ragazzina o quella bambina o quella donna che sono io in un’altra vita ma no in questa o forse in un’altra parallela ma certamente ero io che ridevo verso la fontana o guardavo ironica il mio spectator. Le foto quindi per me sono il punto di partenza di un percorso di vita, qualcosa che parte, come tutti i documenti, da una quasi totale estraneità ma poi ricongiunge le fila di una trama che è inestricabile, a volte invece carezzevole come il velluto. Forse per questo non ho foto con le persone che ho amato, per compiere il cammino più difficile della costruzione di un evento: la collisione fra il sentimento e l’evento stesso attraverso la memoria o la possibilità oggettiva che qualcosa torni a ricomporre le fila di quel giorno” (Trame, racconto loredana alberti 2004).

Jean-Luc Nancy scriveva nel ‘90: “Ciò che viene non è affatto quel che sostengono i deboli discorsi sulla finzione e sullo spettacolo …viene ciò che ci mostrano le immagini. I nostri miliardi di immagini ci mostrano miliardi di corpi, come mai furono mostrati”.

Allora sia: anche se in immagini mediatiche, siamo noi i mille e mille corpi sballottolati dei migranti sopra o sotto un mare amico-nemico, primo respingimento di chi vuole salvarsi; siamo noi  il sorridente Giulio Regeni che accarezza il gattino e siamo noi le scarpine blu con calze bianche carezzate dall’onda del  corpicino bambolotto Aylan e sempre noi i lividi e le botte di Stefano Cucchi, siamo noi che sentiamo i colpi, le bastonate, fai male perché delle amorevoli cure di Decimomannu e prima del Molise e ancora di altri pazienti disabili: malati psichici ragazzi più deboli alla vita che gli altri chiamano normale.

Portiamo sul corpo l’oltraggio l’offesa; “in corpore vili” per alcuni proprio sul corpo di una cosa-persona considerata inutile. Quando la vittima di una violenza insopportabile, atrocemente ingiusta, è “uno di noi”, uno che potrebbe essere nostro figlio o fratello, scatta l’identificazione. Complessi di colpa per tutto quello che non riusciamo o non vogliamo fare per soccorrere, prestare cura.

La brutalità e la violenza la vediamo in video e la sentiamo sul nostro corpo per questo sentiamo fratelli e vicini loro e vogliamo salvarli in ogni modo. Per fare ciò, bisogna prima di tutto venire fuori dal liquido della realtà virtuale, scendere nel profondo: sentire dolore, orrore, botte, sputi, bastonate, calci, unghie strappate, cutter che entra nella carne per capire l’abisso fra l’immagine e il corpo.

O arriviamo alla trasfigurazione totale, alla deificazione come è avvenuto nel trasporto trasfigurato del corpo di padre Pio, trasporto fortemente voluto dal vaticano? In questo evento il corpo è la materia che nella rappresentazione si fa divina, è un evento religioso che di fatto è lo spostamento e la messa in mostra di uno scheletro vestito e con il volto coperto da una maschera in silicone.

“Il corpo ha un grande valore simbolico perché rimanda alla vita e alla morte, ed è un riferimento a tutti i livelli dell’ esistenza umana. La conservazione del corpo è il tentativo di mantenere il contatto con la persona alla quale sono stati conferiti caratteri straordinari, è il tramite simbolico più efficace verso il sacro e appaga il bisogno del fedele di raggiungerlo materialmente. È anche la trasformazione della materia destinata a sparire in un processo di continuità forzata, nel quale le istituzioni religiose credono molto perché ci costringe alla permanenza, crea un sentimento di attesa e solidifica il legame di credulità nella potenza di quel corpo, considerato capace di superare la morte”.

Ed allora sia: santità l’immagine trasfigurata e le opere  di padre Pio; santità i corpi dei pazienti di Decimomannu nel sentire l’odore dell’urina mischiata ai gemiti mentre li mettevano in fila tutti insieme uomini e donne senza distinzione, lavati e asciugati con lo stesso telo: santità e odore di violette; santità l’immagine di Stefano Cucchi, calpestato e umiliato, il viso di Giulio Regeni, con il suo gattino, il corpo sfiorato dalle onde di Aylan; santità i migranti morti in mare.

Abbiamo ancora dubbi fra immagini e corpi?

 

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