Indulgenza o parresia
14 Ottobre 2020
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Indulgenza o parresia

Il sette dicembre 1965 durante l’ultima sessione pubblica del Concilio Vaticano II viene votato e approvato l’ultimo documento: Gaudium et Spes ovvero Costituzione pastorale sulla Chiesa e il mondo contemporaneo. Si tratta del documento che più di tutti rivela l’animus del Concilio che vuole preparare la Chiesa a riscoprire la propria missione e a porsi in atteggiamento di dialogo con il mondo. “Incarnare la fede”, espressione spesso evocata nella chiesa, ma ancora vissuta poco.

La chiesa italiana promulgò, per ogni decennio successivo al dopo concilio, un piano pastorale focalizzato su un tema capace di generare (si sperava) una prassi di rinnovamento. A inizio decennio veniva offerto il documento programmatico sul tema, a metà decennio veniva convocato il convegno, con la presenza dei delegati di tutte le diocesi, dal cui lavoro veniva delineata la pastorale da mettere in cantiere dalla seconda metà del decennio in poi. Per il decennio 1970/80, fu promulgato il primo “piano pastorale” Evangelizzazione e promozione umana; a metà decennio nel 1976 a Roma (30 ottobre – 4 novembre) 2.500 delegati da tutte le diocesi d’Italia vissero l’assemblea che raccoglieva le riflessioni discusse nelle diocesi e quelle nel convegno base per l’impegno futuro. Seguirono (con simile scansione temporale e modello di lavoro) Loreto 1985 (9-13 aprile) Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini; Palermo 1995 (20-24novembre) Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia 2.300 delegati; Verona 2006 (16-20 ottobre) Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, 2.700 delegati; infine Firenze 2015 (9-13 novembre) In Gesù Cristo il nuovo umanesimo 2.500 delegati.

Giuseppe De Rita – uno dei relatori protagonisti del primo convegno, già nella fase preparatoria – rivela oggi in una intervista a Civiltà Cattolica che in una lettera a Mons. Bartoletti, segretario della CEI coordinatore del lavoro, appuntò con “parresia”, ben nove indulgenze che rimproverava alla Chiesa italiana di allora su cui mettere mano per poter rinnovare. Li riportiamo in breve: indulgere (1) al pessimismo da “fine ciclo”; (2) alla testimonianza di pura “difesa”; (3) a pensare prevalentemente a chi sta nel recinto “ai nostri”; (4) a privilegiare alcuni tipi di laici che apparivano “più preti” dei preti; (5) a non resistere alla coazione a parlare o a prendere posizione su qualsiasi cosa; (6) a fidarsi di selezionati e limitati canali di informazione (per esempio, facendosi fare previsioni elettorali da uomini politici direttamente interessati alla questione); (7) a far cultura di affermazione invece che di ricerca; (8) a dimenticare l’importanza della mediazione culturale; e, infine, (9) a un’eccessiva attenzione alla dimensione ideologica della politica. Nota l’intervistatore “sembrano elementi di estrema criticità anche oggi”. Risponde De Rita “Credo che la maggiore criticità sia venuta dalla tendenza a chiudersi nel mondo cattolico, concentrandosi ad affermare (verità, valori, intenti, indicazioni) senza mai tentare di entrare nella dialettica sociale quotidiana… so che, quale che sarà la società, avremo bisogno – i miei figli avranno bisogno – di crocicchi su cui misurarsi, di senso del futuro, di coraggio di cercare nuovi atteggiamenti, di identità individuali e collettive profonde, di comunione reale con gli altri, di capacità di ordinare tutto in prospettive di generale senso della storia, di gioia nel carisma di un futuro che ci appartiene… nell’esprimersi nel richiamo ad osare a fare storia di promozione  umana e di risposta alle attese di giustizia delle nostre singole comunità ecclesiali”.

La lezione conciliare non chiede alla chiesa di rinunciare all’idea di verità, ma le chiede di proporla sapendo che anche il cristiano é sempre in ricerca. La fede non é un trofeo da buttare in faccia agli avversari; é piuttosto una lente che permette di mettere a fuoco lo sguardo sull’altro togliendo di mezzo il pregiudizio. “Noi non possediamo la verità, ma è la verità che ci possiede” diceva il vescovo martire Pierre Claverie. Già S. Agostino riconosceva che “era più importante insegnare agli amici l’umiltà che sfidare i nemici con la verità”. La verità ha sempre il volto della carità. La sensibilità conciliare consente alla Chiesa di lasciarsi coinvolgere e contaminare, lasciandosi anche mettere in discussione. La Chiesa che non ha questa sensibilità è la chiesa del “non possumus” dei valori usati come diga più che come seme. La verità evangelica, attraverso il lavoro umano e la grazia di Dio, trova sempre la via per manifestarsi spesso in modo sorprendente ed inatteso.

Don Tonino Bello scriveva: “Nello stile del Vangelo, la conversione primordiale è quella di chi annuncia la fede, non quella di chi la riceve. È chi la proclama che deve farsi prossimo, che deve smontare da cavallo, che deve diventare indigeno, che deve entrare nella carne dell’altro”. Per non essere i protagonisti di nuove crociate dobbiamo accettare di non essere restauratori di un antico ordine, i liberatori di una “verità incatenata, tradita, deturpata”. Dobbiamo smetterla di difendere i diritti di Dio nel mondo, perché cosi facendo sono in realtà i nostri che difendiamo.

Mi piace concludere con un pensiero “mistico” di Etty Hillesum, dentro la tragedia dei campi di concentramento: “Parlerò con te, mio Dio, posso? Le persone transitano, avverto invece il desiderio di parlare con te solo. Amo così tanto gli altri, perché amo negli altri un pezzetto di te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te. E cerco di disseppellirti dal loro cuore, o Dio” (15 settembre 1942). ☺

 

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