Jus migrandi
7 Novembre 2019
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Jus migrandi

Il verbo “migrare”, in tutte le combinazioni vuol dire spostarsi, cambiare luogo, scambiarsi di luogo, di modo che lo straniero non sia visto come nemico, ma accolto come ospite. In latino questa radice ha generato mutare, mutuus, munus. Per cui migrare non é semplice movimento, ma rinvia ad uno scambio complesso, quello del luogo, e si compie nel paesaggio dove si incontra lo straniero, dove si inaugura la prassi etico-politica della ospitalità. Non si dà un “migrare” senza cambio o meglio senza scambio di luogo, senza l’altro e senza quell’incontro che potrebbe, a causa del luogo, precipitare in uno scontro. Migrare non é un processo biologico, non equivale ad “evoluzione” nella cui teoria manca del tutto il significato del migrare, perché astrae dalla storia, dall’incontro con l’altro. Migrare é un atto politico. Questo spiega perché lo “jus migrandi” (diritto di emigrare) non sia per nulla ovvio; ancora oggi é riconosciuto solo in parte, come diritto di uscire da uno Stato (non consentito da quelli totalitari), ma non come diritto di entrare nei confini di un altro stato e quindi di essere “immigrato”. Se il primo (uscire) é ormai universale, il secondo dipende ancora dalla sovranità degli stati, a quanto pare, molto restii a concederlo. Dal 2007 il Global Forum on Migration and Development, che ha sede nell’ONU, tenta di sviluppare il progetto di una governance mondiale delle migrazioni, incontrando però molti ostacoli frapposti dalle sovranità statuali. Il fine è quello di invertire la logica corrente, dando priorità al migrante, non allo Stato, e reclamando perciò un diritto del singolo, che non può essere limitato, né tanto meno negato dalle esigenze economiche o dai bisogni demografici degli Stati.

Lo jus migrandi é il diritto umano del nuovo secolo che richiederà una lotta pari a quella per l’abolizione della schiavitù. Non a caso proprio agli albori della modernità, all’indomani dei viaggi di Colombo, emerse la necessità di legittimare in qualche modo la conquista del nuovo mondo. In quel contesto lo jus migrandi fu avanzato per giustificare la violenta occupazione da parte dei colonizzatori europei, quegli stessi che dopo aver percorso e devastato il mondo prima con le loro rapine, poi con le loro promesse, gridano oggi all’invasione.

La conquista dell’altro non fu indolore: l’urto con quell’alterità lontana ebbe effetti devastanti. Il più vasto genocidio di cui si abbia memoria storica resta enigmatico nelle dimensioni e nelle modalità: non si sa quanti fossero alla fine del XV secolo gli abitanti di quelle terre. Immensa però fu la catastrofe demografica provocata dal concorrere di cause diverse: non solo la violenza esplicita della conquista, le uccisioni, le sevizie, ma anche la riduzione in schiavitù di interi popoli, le malattie sconosciute, la rottura degli equilibri ecologici e di quelli comunitari. Sia Colombo che Cortez ancora di più, oltre alla supremazia militare perseguirono una coerente strategia politico-comunicativa che non mirava al riconoscimento dell’altro, bensì alla totale sottomissione e, all’occorrenza, sistematica distruzione. Nel 1493, papa Alessandro VI “nella pienezza del potere apostolico” – definì la prima iperfrontiera mondiale “donando, concedendo e destinando” ai re di Castiglia “tutte le isole e le terre, esplorate o da esplorare…verso Occidente e verso Sud” a partire dal meridiano a ovest delle Azzorre. La legittimità di questo atto suscitò dubbi; gli stessi sovrani cattolici si interrogavano sugli indios ridotti in schiavitù. Era lecito trattarli cosi? Non erano esseri umani? La testimonianza contro gli abusi della conquista da parte del domenicano Antonio de Montesinos, invitato nel dicembre 1511 ad una junta di teologi e filosofi, ispirò il re a promulgare il 27 gennaio 1512 le Leyes de Burgos in cui gli indios erano definiti “sudditi liberi della corona”. Francisco de Vitoria dell’Università di Salamanca inserì la questione della conquista e quella più spinosa della colonizzazione per la prima volta in un contesto di primo abbozzo di “diritto internazionale” che contribuì a fondare. Formulò un dovere di ospitalità sancito in quello che chiamo jus migrandi (diritto di emigrare). Affermava nella Relectio de Indies che “all’inizio del mondo, quando tutto era comune era lecito a ognuno trasferirsi e muoversi in qualunque ragione volesse; ora non pare che la divisione dei territori abbia annullato questo diritto, dal momento che l’intenzione dei popoli non é mai stata di abolire, con quella divisione, la comunicazione reciproca fra gli uomini…”. E questo perché totus orbis aliquo modo est una respublica, tutto il mondo in qualche modo é una repubblica.

L’allora “nuovo mondo” oggi detto globalizzato non riesce a riassorbire le proprie novità. Era stato pensato come un mondo di residenti e si presenta invece come un mondo di migranti, era un mondo di stabilità in cui la qualità era la durata (il “tempo indeterminato”) e si ritrova costruito come un mondo di precarietà la cui qualità é vivere nell’imprevedibile. D’altronde se un quarto dell’umanità dispone di risorse, precluse agli altri tre quarti, se le ineguaglianze si accentuano e cresce, grazie ai media, la consapevolezza che una vita migliore sia possibile, stupisce che il numero dei migranti non sia ben più elevato. Il continente dei migranti dispersi ovunque nel globo, è un enorme e variegato popolo in movimento (240 milioni nel 2015, di cui130 in moto verso Nord e 110 verso Sud), che sfida le frontiere dell’ordine mondiale. Contro questo popolo si erge lo Stato, ultimo baluardo del vecchio assetto. Da qui scaturisce il conflitto tra sovranità statuale e diritto di migrare, tra la cittadinanza ristretta ai confini e una nuova cittadinanza deterritorializzata. Per integrare tale mondo nuovo é necessario che si riprenda il processo della imputazione dei diritti fondamentali a tutti gli uomini come diritti universali e permanenti e se ne preveda l’effettività per tutti gli abitanti del pianeta.

Il “noi” è la prima forma grammaticale della comunità: dovrebbe dunque includere; nell’unisono del “noi” sembrano fondersi l’“io” e il “tu”. Può ambire ad includere, oppure può serrarsi in uno spasmo identitario e tuonare “prima noi”. In questo caso si rivela minuscolo e vacuo, che per sentirsi più forte, ha bisogno di un “non-noi”, e che cosa c’é di meglio degli “immigrati clandestini” per acquistare risalto e visibilità?☺

 

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