Li amò fino alla fine
20 Febbraio 2020
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Li amò fino alla fine

Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1).

Il vangelo secondo Giovanni, detto anche “Quarto vangelo”, scritto tra il 90 e il 100 d.C. molto probabilmente ad Efeso, è attribuito all’apostolo Giovanni, il discepolo “che Gesù amava”. Diversamente dai vangeli sinottici, privilegia il simbolo: Gesù si presenta, infatti, come luce, vita, acqua, pane, pastore. Il testo, che si divide in due grandi parti – il libro dei segni (Gv 1-12) e il libro della gloria (Gv 13-21), riflette un processo di fine riflessione teologica che ha portato la tradizione cristiana a definirlo il vangelo “spirituale”.

Sorprende il fatto che nel contesto dell’ultima cena, Giovanni, diversamente dai sinottici, non riporti il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, attestato anche da Paolo in 1Cor 11, ma concentri tutta la sua attenzione sul gesto di Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli e insegna loro a fare altrettanto (Gv 13,1-17). L’abluzione dei piedi ai suoi non è solo un’espressione dell’umiltà di Gesù, né solo un gesto edificante ma, nel contesto dell’avvicinarsi della Pasqua e dell’“ora” di Gesù che rappresenta l’apice di tutto il suo ministero e della sua vicenda terrena, tale gesto diventa rivelativo perché manifesta nel concreto fin dove arriva il dono di sé da parte di Gesù.

Il momento in cui il gesto è collocato è estremamente importante e lo si intuisce dall’accumulo di informazioni e circostanze che l’evangelista riferisce e che gli conferisce solennità: la cornice, infatti, è liturgica (si avvicina la Pasqua), teologica (è prossima l’ora di Gesù), agapica (il racconto rientra nel dinamismo di un amore che davanti alla minaccia della morte imminente non si ritrae ma giunge a pienezza), temporale (vi è il riferimento all’ultimo pasto di Gesù con i suoi), drammatica (è ormai prossimo il tradimento da parte di uno degli amici più cari), salvifica (Gesù sa che ha ricevuto tutto dalle mani del Padre per fare grazia e dare vita sovrabbondante) e comunionale (il Figlio venuto dal Padre torna al Padre suo).

Lavando i piedi ai suoi, Gesù invita a fare “come” lui, quasi a dire che ogni gesto di amore verso gli altri presenta un carattere sacramentale, in quanto manifestazione concreta e visibile dell’amore del Padre in Cristo. Lavare i piedi per Gesù è il gesto superlativo che chiede una serie di gesti che mettono in atto un’autentica liturgia di accoglienza e di cura: alzarsi, deporre le proprie vesti, prendere un asciugatoio, cingerselo, versare dell’acqua in un catino, lavare i piedi dell’altro e asciugarli sono gesti che spingono ad incontrare l’altro nella sua concretezza storica e relazionale, cioè nel suo corpo, e a tenere tra le mani i suoi piedi che dicono il radicamento alla storia e il contatto con la terra. Sono gesti che dicono che la carne dell’altro è preziosa, che il suo esserci è importante e richiede amore.

Segno che Dio non disdegna la carne e la sua fragilità ma è venuto ad accarezzarla e ad assumerla. Per questo il Verbo si è fatto carne (Gv 1,14). Questo gesto diviene anche la chiave di lettura dell’intera passione, che è amore fino alla fine. Quel gesto compiuto dal Maestro, che si colloca sul registro della kenosi o abbassamento di Gesù, scandalizza Simon Pietro che potrà accettarlo solo perché Gesù lo rassicura invitandolo alla fiducia. Il gesto di servizio compiuto da Gesù non sminuisce la sua signoria, ma insegna la via in cui si compie ogni autentico discepolato. Gesù insegna che l’amore è vero se sa abbassarsi e raggiungere l’altro dove si trova, in una vicinanza che manifesti l’amore del Padre e metta in circolo la compassione che guarisce le ferite del mondo.

Il gesto della lavanda dei piedi compiuto da Gesù è un gesto che interpella fortemente e non lascia tranquilli. Ci ricorda la dedizione e il coinvolgimento nei rapporti a partire dal prossimo che ci abita accanto. Potrò dirmi cristiano se vanto imprese caritatevoli fuori, mentre dentro non guardo negli occhi chi siede a tavola con me

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