ventaglio di intelligenze    di Gabriella de Lisio
2 Settembre 2012 Share

ventaglio di intelligenze di Gabriella de Lisio

 

L’intelligenza non esiste. E Howard Gardner è lo psicologo statunitense, vivente, famoso in tutto il mondo per aver affermato che le intelligenze sono più d’una e meritano – specialmente tra i banchi di scuola, o meglio dietro alle cattedre – un trattamento assai diverso da quello fin ora ad esse riservato dalla maggioranza degli insegnanti.

La teoria delle intelligenze multiple è infatti, senza essere nata con questo scopo, una critica serrata alla tesi secondo la quale gli uomini possiedono una sola intelligenza, per di più misurabile con strumenti psicometrici standard come quelli elaborati all’inizio del ‘900 negli Usa per prevedere il successo o l’insuccesso scolastico, nella convinzione che il potenziale intellettivo umano fosse determinato alla nascita, con poche o nulle possibilità di evolvere o incrementare nel corso dell’esistenza.

La posizione di Gardner (ben sintetizzata in Educazione e sviluppo della mente, Erickson 2005) ammette la “convivialità delle differenze” di almeno sette intelligenze o facoltà (versate chi alla lingua, chi alla logica, chi alla musica, chi allo spazio, chi ai rapporti interpersonali e così via) che, compresenti in ciascuno di noi, si sviluppano in modo talvolta molto diverso l’una rispetto all’altra, a seconda degli stimoli circostanti, e collaborano alla risoluzione dei vari problemi quotidiani di fronte ai quali ci troviamo.

Il difettaccio della scuola italiana (e non solo, se lo stesso Gardner tira le orecchie anche ai docenti americani) è di privilegiare le sole intelligenze linguistica e logico-matematica, che sono le uniche valutate nell’ambito dei test di verifica scolastica, ritenendo poco dotati quegli allievi che manifestano intelligenze ed inclinazioni diverse, alternative.

Ammettere un ventaglio di intelligenze ha di per sé una ricaduta didattica e pedagogica immediata, poiché invita a riflettere su un modo diverso di impostare l’insegnamento, più attento a valorizzare le capacità proprie, peculiari, di ciascuno, senza mortificare quelle poco “allineate” perché non le si conosce nemmeno, non le si riconosce, non le si apprezza.

Invita a riflettere sul modo balordo, e spesso poco limpido, con cui gestiamo il famigerato “orientamento in uscita” dalla scuola media verso quella superiore, quando badiamo più ai numeri che formano le sezioni e meno ai cervelli e alle sensibilità che riempiranno quei banchi; quando discriminiamo in modo razzista i “bravi” che spediamo al liceo e i “modesti” o i “fannulloni” che, con sufficienza, destiniamo a un professionale o, ben che vada, ad un tecnico. Ma quand’è che inizieremo a capire che ogni scuola ha la sua dignità purché sia presa sul serio? Quando ci decideremo ad ammettere che l’avanguardia di un laboratorio meccanico attrezzato non ha nulla da invidiare a un glorioso liceo classico? E che il sapere è sapere, non c’è un sapere di serie A (fatto per i figli di buona famiglia di certe nostre province) e uno di serie B?

Invita anche a riflettere, tornando al ventaglio di intelligenze, sul modo in cui sono costruiti i nostri test di verifica delle conoscenze, delle abilità, delle competenze: un talento musicale non potrà dare il meglio di sé in un banale test a domanda, bensì nell’ascolto di un brano o nell’esecuzione dello stesso. Persino una competenza linguistica – così abituati come siamo a verificarla con carta e penna – ha bisogno di stimoli e problemi da risolvere in situazioni comunicative reali, ben simulate.

Insomma, gli allievi devono essere messi in grado di affrontare problemi concreti e di mettere in moto – a seconda delle esigenze – questa o quella “intelligenza”, questa o quella inclinazione, per allenarsi a risolvere problemi con il concorso di tutte le facoltà.

La vedo male. E la vedo lontana, la nostra scuola, da questa impostazione dell’apprendimento come palestra che deve aiutare i ragazzi a muoversi con creatività e spirito d’iniziativa nel mondo, riuscendo a leggerlo con occhi competenti e preparati all’imprevisto.

Però… è settembre. E ogni settembre è un ripartire con nuove energie, nuova progettualità, nuova fiducia che si può fare di più e meglio, che si può seminare il nuovo e crescere.

L’augurio che quest’anno faccio ai miei colleghi è di rileggere o leggere Gardner, sicuro, partiamo da qui, anche per gustare la piacevolezza di una prosa svelta, garbata. E poi di tornare in classe con occhi e occhiali diversi, di tanti colori… almeno tanti quanti sono gli infiniti, nascosti potenziali dei nostri ragazzi. Intravedo un arcobaleno favoloso. Buon lavoro. ☺

gadelis@libero.it

 

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