Viaggio nel tempo 3
15 Maggio 2019
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Viaggio nel tempo 3

Qualche tempo fa ho citato la frase diventata famosa con il movimento del ‘68: “il privato è politico, e il politico è privato”.Quanto è vera questa frase l’ho capito veramente nel mese di maggio del 1989, il mese che mi ha regalato un primo nipote ed allo stesso tempo l’ultimo mese con il mio compagno Dario accanto a me.

Mia figlia abitava nella Germania Ovest, a Colonia, ed a metà maggio doveva nascere il suo primo figlio. Io stavo scrivendo la biografia di una fotografa tedesca emigrata nel 1933 negli Stati Uniti e per fare le ricerche avevo il permesso di viaggiare nella Germania Ovest. Cosi, verso il 15 maggio abbiamo intrapreso il viaggio, mia madre, Dario ed io. Ci ospitava Christa, una amica, collaboratrice della casa editrice che poco tempo prima aveva pubblicato la mia biografia di Tina Modotti. Le serate in casa sua erano lunghe, avevamo tante cose da discutere, perché l’amica voleva sapere cosa succedeva nella DDR, cosa volevano i “dissidenti”, cosa pensavamo di Gorbacev, come vedevamo il futuro.

Una di quelle sere Dario disse una frase che mi fece saltare per aria. Disse che Stalin aveva ammazzato più comunisti di Hitler. Quella frase condusse alla prima vera discussione fra noi due dopo cinque anni di convivenza, e la colpa fu mia, perché non avevo sentito bene la frase. Dario non parlava di essere umani, ma di comunisti, ed in questo senso aveva totalmente ragione.

Da qualche tempo Dario era molto più riservato di prima, parlava poco, Perestroika e Glasnost non gli interessavano, o meglio, considerava che erano misure prese troppo tardi, che non potevano salvare il “socialismo reale esistente”. Ripensando oggi a quei giorni penso che il primo evento che contribuì a quello stato d’animo di Dario è stato proprio il 1° Maggio. Per una complicazione non abbiamo potuto raggiungere, per la manifestazione, il gruppo degli scrittori con il quale avevamo partecipato tutti gli anni, e cosi volevamo unirci alla manifestazione in un certo punto, ma prima di raggiungere la fila dei manifestanti, tre uomini in abiti civili ci fermarono chiedendoci le nostre carte d’identità. Solo dopo un controllo minuzioso di questi documenti ci lasciarono passare. A noi non veniva in mente nessuna spiegazione per questo strano incidente, ma dopo qualche tempo ci tornò alla mente il ricordo della manifestazione per Liebknecht e Luxemburg, a gennaio, manifestazione dove un gruppo di manifestanti avevano esibito un cartello con la frase di Rosa: “La libertà è sempre anche la libertà di chi la pensa diversamente”. Allora, così grande era la paura della Stasi e del partito che si potesse ripetere un “incidente” di quel genere che avevano dato ordine di controllare i manifestanti? Ne abbiamo parlato molto nelle giornate successive, eravamo d’accordo che si respirava una brutta aria nel paese.

Nel frattempo c’erano state anche le elezioni, e naturalmente il risultato era stato del genere che qui in Italia chiamate “bulgaro“. Nei seggi elettorali c’erano sempre, come in tutti i paesi del mondo, delle cabine che permettono alla persona votante la dovuta privacy, ma quasi mai queste cabine si usavano, e questa volta mia madre ed io avevamo deciso di entrare nella cabina, non per dare il nostro voto a una opposizione, o, meglio, non per NON dare il nostro consenso all’unica lista presente sulla scheda elettorale, ma per far vedere che sapevamo come si devono fare le elezioni… Non dimentico mai gli sguardi delle persone sedute nel seggio, persone che conoscevamo, persone che in parte vivevano nello stesso palazzo dove abitavamo noi. Queste persone ci conoscevano, sapevano che eravamo membri del Partito di Unità Socialista, e non potevano, per niente nel mondo, capire perché avevamo “osato” mettere la nostra croce nell’intimità di una cabina elettorale.

Oggi, ricordando tutto questo, non so se ridere o piangere. Il terzo evento che ricordo non mi fa né ridere né piangere ma urlare di rabbia. C’era una riunione del partito all’Unione degli scrittori, e ci aveva “onorato” con la sua presenza un tale Günther Schabowski, membro del Bureau Politico del Partito. Voleva sapere da noi quale era l’aria che tirava. La prima persona che prese la parola fu Ruth Werner, una scrittrice di 80 anni che era stata attiva nella resistenza anti-hitleriana ed era portatrice della medaglia della stella rossa, assegnatale dall’Unione Sovietica. Ruth raccontò tutto quello che le diceva la gente quando lei andava nelle biblioteche o nelle fabbriche per leggere i suoi libri. Tutti noi conoscevamo questo fatto: la lettura di una scrittrice o di uno scrittore provocava sempre una viva discussione e la gente sempre ci raccontava le cose che non andavano bene nel paese. Ruth raccontava tutto questo, visibilmente sconvolta e preoccupata, ma dopo 10 minuti Schabowski la interruppe dicendo: “Non so qual è il tuo problema compagna, non so come stai attirando un certo tipo di gente!”. Ci fu una specie di (timido) tumulto nella sala, e la riunione fu chiusa.

Tutto questo avevamo lasciato dietro di noi per andare a Colonia, ma mio nipote si prendeva il suo tempo, e dopo quattro giorni Dario non poteva muovere il collo, si sentiva male e decise di ritornare da solo a Berlino. Mia figlia, che stava giustamente leggendo un libro dal titolo La malattia come strada mi disse: “Se non può muovere il collo significa che non vuole guardare indietro”. Jasmina non poteva sapere quanta ragione aveva, perché, un mese dopo, Dario si tolse la vita. ☺

 

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