I predoni hanno rubato e hanno molestato: tra le cose e le donne non c’è stata alcuna differenza. Se degli attentati di Parigi si è parlato come di un atto di jihad nel cuore dell’Europa, dei fatti di Colonia si dovrebbe parlare come di una piazza Tahir, non la piazza Tahir della primavera araba, quella dove le donne partecipavano da pari ai moti “rivoluzionari”, ma la piazza Tahir subito-dopo, quella in cui le donne venivano molestate, insultate, umiliate e palpeggiate per ricondurle brutalmente al loro stato di illibertà.
Il messaggio è chiaro: sei solo una cosa a mia disposizione, specie se giri sola per strada, mostrando di non appartenere ad alcun uomo; nessuna libertà ti è consentita, se non quella di consegnarti a un padrone, e se non lo fai, se pensi di poter essere autonoma, di guadagnarti il pane, di guidare la macchina, di vestirti come ti pare, sei solo una puttana a mia disposizione. E devi avere paura.
Essere una donna è pericoloso ovunque e sempre. La pericolosità dell’essere nata donna, la paura che deve conseguirne – ovvero il preciso rovesciamento della paura che gli uomini provano per la potenza materna e l’illimitato godimento femminile – è il fondamento ineliminabile del patriarcato, il cuore della questione maschile. Se una sola donna mostra di non avere paura, tutto l’impianto rischia di crollare.
I maschi di Colonia non erano poveri astinenti sessuali.
I maschi Colonia erano uomini che rimettevano le cose a posto.
I maschi di Colonia hanno voluto riaffermare un sistema di valori.
I maschi di Colonia hanno voluto compiere qualcosa di simile agli stupri etnici.
È il corpo della donna il campo di battaglia definitivo. ☺
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I maschi di colonia | La Fonte TV
Gli studiosi chiamano marginalising masculinities (Connell, 1995) quella categoria di uomini che vorrebbero essere egemonici nel sistema di potere patriarcale, ma non possono accedere a quei privilegi a causa delle caratteristiche socio-economiche, per esempio l’etnia o il colore della pelle. In sostanza, si crea un cortocircuito tra vecchia (o arcaica) cultura patriarcale e quella predatoria sottocultura post-moderna che si nutre delle frustrazioni e del rancore di chi è tagliato fuori dall’accesso al benessere e al riconoscimento sociale. Privati dei mezzi economici in una società ultra-capitalista, alcuni uomini ritornano a forme primordiali di virilità per affermare e verificare la propria mascolinità nei confronti sia delle donne che degli altri uomini. Le subculture locali si incontrano e si mischiano ad un immaginario maschile globale, frutto dei processi economico-politici contemporanei, creando così nuove e inaccettabili forme di patriarcato di cui le migrazioni possono essere veicolo.
Amina è una donna minuta, una trentenne siriana, con occhi slargati dalla paura. Madre di quattro bambini, è fuggita dalla guerra insieme alla sua famiglia all’inizio dell’anno scorso. Quando il marito ha finito i soldi per pagare i trafficanti che li stavano portando in Europa, gli ha offerto sua moglie per saldare il resto delle spese di viaggio. Per tre mesi la ragazza è stata violentata quasi ogni giorno. Presto anche il suo stesso marito cominciò ad abusare di lei. “Una sorta di logica contorta – spiega Susanne Hohne che lavora come psicoterapeuta in un centro specializzato nel trattamento degli immigrati – per cui ciò che il suo compagno l’aveva costretta a fare, aveva finito per infangare la sua reputazione rendendola in qualche modo colpevole agli occhi di lui. Presenta tutti i segni di un disturbo post-traumatico da stress – soffre di insonnia e difficoltà di concentrazione e spesso si blocca a causa di alcuni flashback che la riportano indietro nel tempo convinta di essere intenta a schivare i proiettili per le strade di Damasco o di nuovo in Bulgaria schiacciata dal peso e dalla violenza del suo stupratore”.
Esraa al-Horani ha un’altra storia da raccontare; faceva la make up artist, poi ha deciso di partire alla ricerca di un futuro migliore. Lontano dalla guerra e dalla fame. Sapeva però che il viaggio sarebbe stato pericoloso e così ha ideato uno stratagemma; ha affrontato la traversata verso l’Europa travestita da ragazzo e senza lavarsi, per tenere lontani gli uomini del suo gruppo di rifugiati e evitare stupri e molestie sessuali. Ora si trova in una casa di accoglienza a Berlino, dorme ancora con gli stessi indumenti e, come molte altre donne qui, la notte spinge un armadio davanti alla sua porta. Per sentirsi almeno un po’ più al sicuro. “Qui non esiste una chiave o un lucchetto” (il servizio di accoglienza non può fornirne perché è stato necessario tagliare i costi, ndr) dice Esraa, che è una delle poche donne che ha avuto il coraggio di rivelare il proprio nome, perché in questa situazione, a una donna fa paura anche solo rivelare il proprio nome. Meglio nascondersi, passare inosservate, fingere di non esistere. Esraa è stata fortunata, dice: “Mi hanno solo picchiata e derubata”. Ad altre è andata peggio.
Queste ed altre le testimonianze raccolte dal New York Times che ha pubblicato il 2 gennaio un reportage firmato da Katrin Bennhold che racconta la storia di alcune donne in fuga dai Paesi islamici e il loro disperato viaggio verso la Germania, costrette a subire molestie da una immensa varietà di uomini, anzi di maschi. Non esistono ancora statistiche ufficiali e attendibili che registrano in numeri gli abusi e le molestie sessuali che le donne rifugiate sono costrette a subire durante il tragitto; non di rado queste donne incappano in matrimoni forzati, stupri e violenze perpetrate sia dai profughi loro compagni di viaggio che da contrabbandieri o, addirittura, da agenti di polizia, anche appartenenti a paesi membri dell’Unione.
Dopo i fatti di Colonia, il risultato più grave (un migliaio di “arabi e nordafricani” che la notte di Capodanno si sono avventati contro tutte le donne che incontravano libere per strada, 90 denunce per molestie, 2 stupri) è quello di rifiutare il principio che la preda è sempre la donna. Si è trattato di un atto di guerriglia organizzato. Anzi, è stato molto di più.
I predoni hanno rubato e hanno molestato: tra le cose e le donne non c’è stata alcuna differenza. Se degli attentati di Parigi si è parlato come di un atto di jihad nel cuore dell’Europa, dei fatti di Colonia si dovrebbe parlare come di una piazza Tahir, non la piazza Tahir della primavera araba, quella dove le donne partecipavano da pari ai moti “rivoluzionari”, ma la piazza Tahir subito-dopo, quella in cui le donne venivano molestate, insultate, umiliate e palpeggiate per ricondurle brutalmente al loro stato di illibertà.
Il messaggio è chiaro: sei solo una cosa a mia disposizione, specie se giri sola per strada, mostrando di non appartenere ad alcun uomo; nessuna libertà ti è consentita, se non quella di consegnarti a un padrone, e se non lo fai, se pensi di poter essere autonoma, di guadagnarti il pane, di guidare la macchina, di vestirti come ti pare, sei solo una puttana a mia disposizione. E devi avere paura.
Essere una donna è pericoloso ovunque e sempre. La pericolosità dell’essere nata donna, la paura che deve conseguirne – ovvero il preciso rovesciamento della paura che gli uomini provano per la potenza materna e l’illimitato godimento femminile – è il fondamento ineliminabile del patriarcato, il cuore della questione maschile. Se una sola donna mostra di non avere paura, tutto l’impianto rischia di crollare.
I maschi di Colonia non erano poveri astinenti sessuali.
I maschi Colonia erano uomini che rimettevano le cose a posto.
I maschi di Colonia hanno voluto riaffermare un sistema di valori.
I maschi di Colonia hanno voluto compiere qualcosa di simile agli stupri etnici.
È il corpo della donna il campo di battaglia definitivo. ☺
Gli studiosi chiamano marginalising masculinities (Connell, 1995) quella categoria di uomini che vorrebbero essere egemonici nel sistema di potere patriarcale, ma non possono accedere a quei privilegi a causa delle caratteristiche socio-economiche, per esempio l’etnia o il colore della pelle. In sostanza, si crea un cortocircuito tra vecchia (o arcaica) cultura patriarcale e quella predatoria sottocultura post-moderna che si nutre delle frustrazioni e del rancore di chi è tagliato fuori dall’accesso al benessere e al riconoscimento sociale. Privati dei mezzi economici in una società ultra-capitalista, alcuni uomini ritornano a forme primordiali di virilità per affermare e verificare la propria mascolinità nei confronti sia delle donne che degli altri uomini. Le subculture locali si incontrano e si mischiano ad un immaginario maschile globale, frutto dei processi economico-politici contemporanei, creando così nuove e inaccettabili forme di patriarcato di cui le migrazioni possono essere veicolo.
Amina è una donna minuta, una trentenne siriana, con occhi slargati dalla paura. Madre di quattro bambini, è fuggita dalla guerra insieme alla sua famiglia all’inizio dell’anno scorso. Quando il marito ha finito i soldi per pagare i trafficanti che li stavano portando in Europa, gli ha offerto sua moglie per saldare il resto delle spese di viaggio. Per tre mesi la ragazza è stata violentata quasi ogni giorno. Presto anche il suo stesso marito cominciò ad abusare di lei. “Una sorta di logica contorta – spiega Susanne Hohne che lavora come psicoterapeuta in un centro specializzato nel trattamento degli immigrati – per cui ciò che il suo compagno l’aveva costretta a fare, aveva finito per infangare la sua reputazione rendendola in qualche modo colpevole agli occhi di lui. Presenta tutti i segni di un disturbo post-traumatico da stress – soffre di insonnia e difficoltà di concentrazione e spesso si blocca a causa di alcuni flashback che la riportano indietro nel tempo convinta di essere intenta a schivare i proiettili per le strade di Damasco o di nuovo in Bulgaria schiacciata dal peso e dalla violenza del suo stupratore”.
Esraa al-Horani ha un’altra storia da raccontare; faceva la make up artist, poi ha deciso di partire alla ricerca di un futuro migliore. Lontano dalla guerra e dalla fame. Sapeva però che il viaggio sarebbe stato pericoloso e così ha ideato uno stratagemma; ha affrontato la traversata verso l’Europa travestita da ragazzo e senza lavarsi, per tenere lontani gli uomini del suo gruppo di rifugiati e evitare stupri e molestie sessuali. Ora si trova in una casa di accoglienza a Berlino, dorme ancora con gli stessi indumenti e, come molte altre donne qui, la notte spinge un armadio davanti alla sua porta. Per sentirsi almeno un po’ più al sicuro. “Qui non esiste una chiave o un lucchetto” (il servizio di accoglienza non può fornirne perché è stato necessario tagliare i costi, ndr) dice Esraa, che è una delle poche donne che ha avuto il coraggio di rivelare il proprio nome, perché in questa situazione, a una donna fa paura anche solo rivelare il proprio nome. Meglio nascondersi, passare inosservate, fingere di non esistere. Esraa è stata fortunata, dice: “Mi hanno solo picchiata e derubata”. Ad altre è andata peggio.
Queste ed altre le testimonianze raccolte dal New York Times che ha pubblicato il 2 gennaio un reportage firmato da Katrin Bennhold che racconta la storia di alcune donne in fuga dai Paesi islamici e il loro disperato viaggio verso la Germania, costrette a subire molestie da una immensa varietà di uomini, anzi di maschi. Non esistono ancora statistiche ufficiali e attendibili che registrano in numeri gli abusi e le molestie sessuali che le donne rifugiate sono costrette a subire durante il tragitto; non di rado queste donne incappano in matrimoni forzati, stupri e violenze perpetrate sia dai profughi loro compagni di viaggio che da contrabbandieri o, addirittura, da agenti di polizia, anche appartenenti a paesi membri dell’Unione.
Dopo i fatti di Colonia, il risultato più grave (un migliaio di “arabi e nordafricani” che la notte di Capodanno si sono avventati contro tutte le donne che incontravano libere per strada, 90 denunce per molestie, 2 stupri) è quello di rifiutare il principio che la preda è sempre la donna. Si è trattato di un atto di guerriglia organizzato. Anzi, è stato molto di più.
I predoni hanno rubato e hanno molestato: tra le cose e le donne non c’è stata alcuna differenza. Se degli attentati di Parigi si è parlato come di un atto di jihad nel cuore dell’Europa, dei fatti di Colonia si dovrebbe parlare come di una piazza Tahir, non la piazza Tahir della primavera araba, quella dove le donne partecipavano da pari ai moti “rivoluzionari”, ma la piazza Tahir subito-dopo, quella in cui le donne venivano molestate, insultate, umiliate e palpeggiate per ricondurle brutalmente al loro stato di illibertà.
Il messaggio è chiaro: sei solo una cosa a mia disposizione, specie se giri sola per strada, mostrando di non appartenere ad alcun uomo; nessuna libertà ti è consentita, se non quella di consegnarti a un padrone, e se non lo fai, se pensi di poter essere autonoma, di guadagnarti il pane, di guidare la macchina, di vestirti come ti pare, sei solo una puttana a mia disposizione. E devi avere paura.
Essere una donna è pericoloso ovunque e sempre. La pericolosità dell’essere nata donna, la paura che deve conseguirne – ovvero il preciso rovesciamento della paura che gli uomini provano per la potenza materna e l’illimitato godimento femminile – è il fondamento ineliminabile del patriarcato, il cuore della questione maschile. Se una sola donna mostra di non avere paura, tutto l’impianto rischia di crollare.
I maschi di Colonia non erano poveri astinenti sessuali.
I maschi Colonia erano uomini che rimettevano le cose a posto.
I maschi di Colonia hanno voluto riaffermare un sistema di valori.
I maschi di Colonia hanno voluto compiere qualcosa di simile agli stupri etnici.
È il corpo della donna il campo di battaglia definitivo. ☺
Gli studiosi chiamano marginalising masculinities (Connell, 1995) quella categoria di uomini che vorrebbero essere egemonici nel sistema di potere patriarcale, ma non possono accedere a quei privilegi a causa delle caratteristiche socio-economiche, per esempio l’etnia o il colore della pelle. In sostanza, si crea un cortocircuito tra vecchia (o arcaica) cultura patriarcale e quella predatoria sottocultura post-moderna che si nutre delle frustrazioni e del rancore di chi è tagliato fuori dall’accesso al benessere e al riconoscimento sociale. Privati dei mezzi economici in una società ultra-capitalista, alcuni uomini ritornano a forme primordiali di virilità per affermare e verificare la propria mascolinità nei confronti sia delle donne che degli altri uomini. Le subculture locali si incontrano e si mischiano ad un immaginario maschile globale, frutto dei processi economico-politici contemporanei, creando così nuove e inaccettabili forme di patriarcato di cui le migrazioni possono essere veicolo.
Amina è una donna minuta, una trentenne siriana, con occhi slargati dalla paura. Madre di quattro bambini, è fuggita dalla guerra insieme alla sua famiglia all’inizio dell’anno scorso. Quando il marito ha finito i soldi per pagare i trafficanti che li stavano portando in Europa, gli ha offerto sua moglie per saldare il resto delle spese di viaggio. Per tre mesi la ragazza è stata violentata quasi ogni giorno. Presto anche il suo stesso marito cominciò ad abusare di lei. “Una sorta di logica contorta – spiega Susanne Hohne che lavora come psicoterapeuta in un centro specializzato nel trattamento degli immigrati – per cui ciò che il suo compagno l’aveva costretta a fare, aveva finito per infangare la sua reputazione rendendola in qualche modo colpevole agli occhi di lui. Presenta tutti i segni di un disturbo post-traumatico da stress – soffre di insonnia e difficoltà di concentrazione e spesso si blocca a causa di alcuni flashback che la riportano indietro nel tempo convinta di essere intenta a schivare i proiettili per le strade di Damasco o di nuovo in Bulgaria schiacciata dal peso e dalla violenza del suo stupratore”.
Esraa al-Horani ha un’altra storia da raccontare; faceva la make up artist, poi ha deciso di partire alla ricerca di un futuro migliore. Lontano dalla guerra e dalla fame. Sapeva però che il viaggio sarebbe stato pericoloso e così ha ideato uno stratagemma; ha affrontato la traversata verso l’Europa travestita da ragazzo e senza lavarsi, per tenere lontani gli uomini del suo gruppo di rifugiati e evitare stupri e molestie sessuali. Ora si trova in una casa di accoglienza a Berlino, dorme ancora con gli stessi indumenti e, come molte altre donne qui, la notte spinge un armadio davanti alla sua porta. Per sentirsi almeno un po’ più al sicuro. “Qui non esiste una chiave o un lucchetto” (il servizio di accoglienza non può fornirne perché è stato necessario tagliare i costi, ndr) dice Esraa, che è una delle poche donne che ha avuto il coraggio di rivelare il proprio nome, perché in questa situazione, a una donna fa paura anche solo rivelare il proprio nome. Meglio nascondersi, passare inosservate, fingere di non esistere. Esraa è stata fortunata, dice: “Mi hanno solo picchiata e derubata”. Ad altre è andata peggio.
Queste ed altre le testimonianze raccolte dal New York Times che ha pubblicato il 2 gennaio un reportage firmato da Katrin Bennhold che racconta la storia di alcune donne in fuga dai Paesi islamici e il loro disperato viaggio verso la Germania, costrette a subire molestie da una immensa varietà di uomini, anzi di maschi. Non esistono ancora statistiche ufficiali e attendibili che registrano in numeri gli abusi e le molestie sessuali che le donne rifugiate sono costrette a subire durante il tragitto; non di rado queste donne incappano in matrimoni forzati, stupri e violenze perpetrate sia dai profughi loro compagni di viaggio che da contrabbandieri o, addirittura, da agenti di polizia, anche appartenenti a paesi membri dell’Unione.
Dopo i fatti di Colonia, il risultato più grave (un migliaio di “arabi e nordafricani” che la notte di Capodanno si sono avventati contro tutte le donne che incontravano libere per strada, 90 denunce per molestie, 2 stupri) è quello di rifiutare il principio che la preda è sempre la donna. Si è trattato di un atto di guerriglia organizzato. Anzi, è stato molto di più.
I predoni hanno rubato e hanno molestato: tra le cose e le donne non c’è stata alcuna differenza. Se degli attentati di Parigi si è parlato come di un atto di jihad nel cuore dell’Europa, dei fatti di Colonia si dovrebbe parlare come di una piazza Tahir, non la piazza Tahir della primavera araba, quella dove le donne partecipavano da pari ai moti “rivoluzionari”, ma la piazza Tahir subito-dopo, quella in cui le donne venivano molestate, insultate, umiliate e palpeggiate per ricondurle brutalmente al loro stato di illibertà.
Il messaggio è chiaro: sei solo una cosa a mia disposizione, specie se giri sola per strada, mostrando di non appartenere ad alcun uomo; nessuna libertà ti è consentita, se non quella di consegnarti a un padrone, e se non lo fai, se pensi di poter essere autonoma, di guadagnarti il pane, di guidare la macchina, di vestirti come ti pare, sei solo una puttana a mia disposizione. E devi avere paura.
Essere una donna è pericoloso ovunque e sempre. La pericolosità dell’essere nata donna, la paura che deve conseguirne – ovvero il preciso rovesciamento della paura che gli uomini provano per la potenza materna e l’illimitato godimento femminile – è il fondamento ineliminabile del patriarcato, il cuore della questione maschile. Se una sola donna mostra di non avere paura, tutto l’impianto rischia di crollare.
I maschi di Colonia non erano poveri astinenti sessuali.
I maschi Colonia erano uomini che rimettevano le cose a posto.
I maschi di Colonia hanno voluto riaffermare un sistema di valori.
I maschi di Colonia hanno voluto compiere qualcosa di simile agli stupri etnici.
È il corpo della donna il campo di battaglia definitivo. ☺
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