affliggere i consolati
14 Aprile 2010 Share

affliggere i consolati

 

“Bisogna abituarsi di più a sognare, a sognare ad occhi aperti. I sogni diurni si realizzano sempre. Siamo troppo chiusi nelle nostre prudenze della carne, non dello Spirito, per cui sembra che siamo i notai dello status quo, e non i profeti dell’amore che irrompe, del futuro nuovo, dei cieli nuovi, delle terre nuove… Mi auguro che i giovani di oggi, tutti, possano far parte di questa turba di gente che muove a piedi scalzi verso i traguardi della pace. Beati i piedi di coloro che annunciano la pace, beati i piedi di coloro che annunciano la giustizia”. 

A parlare così è mons. Antonio Bello, don Tonino come tutti lo chiamavano, vescovo di Molfetta – Giovinazzo – Terlizzi, morto a 58 anni il 20 aprile 1993, consumato dal cancro ma non sopraffatto. “Il drago con cui il mio corpo e il mio spirito stanno lottando mi hanno impedito di stare con voi, dirà  alcuni giorni prima di morire. Ma non gliela darò vinta, l’ultima parola sarà la vita”. E la morte, come i grandi patriarchi, non l’ha sfuggita, l’ha presa per mano e amata, fino a condurla dentro la sua vita nella certezza di un’esistenza nuova.

Nato ad Alessano, nel Salento, parroco stimatissimo ed amatissimo a Tricase (Lecce), dal 1982 vescovo di Molfetta. In lui carisma e istituzione trovano mirabile sintesi, presto si rivela come forza dirompente e incontenibile nella chiesa italiana così abituata nelle alte sfere a compromessi e ipocrisie. Dal 1985 come presidente di Pax Christi dà dignità culturale e teologica ai grandi temi della pace e della nonviolenza riconoscendo nella pace il centro del messaggio evangelico e di tutta l’azione della chiesa.

Come Giovanni Battista usa la Parola per sferzare le coscienze, come Isaia annuncia aneliti di mondi diversi e riconciliati, come Cristo non disgiunge mai la parola dalla vita. Traduce il vangelo in parole a tutti comprensibili, compreso, in verità, più dai lontani che da quanti parlano la sua stessa lingua e frequentano la sua stessa chiesa. Questi lo riterranno pericoloso e lo terranno sempre ai margini.

Si rivolge ai generali contestandone i disegni e la retorica, leva la voce a difesa dell’immigrato nordafricano, dell’operaio cassintegrato, del vecchio in fila per i bollini, della donna del Sud ancora minacciata dal maschilismo. Apre la sua casa a sfrattati ed emarginati, si oppone alle basi nucleari di Comiso e si batte contro l’installazione degli F 16 nella base militare di Crotone. In occasione della guerra del Golfo denuncia la falsa coscienza dell’Occidente e invita all’obiezio- ne di coscienza, divenendo oggetto di attacchi durissimi da parte della grande stampa italiana. Cerca una soluzione pacifica nel conflitto esploso nella ex  Iugoslavia fino a partire, già seriamente minacciato dal cancro, con i 500 pacifisti alla volta di Sarajevo per affermare in una terra dilaniata da una guerra fratricida le ragioni della pace.

Alle insegne episcopali preferisce il grembiule del servizio con cui Cristo si è cinto per lavare i piedi degli apostoli. L’eucaristia, per dirla col suo linguaggio ispirato e lirico, non è un tranquillante per le anime devote, deve affliggere i consolati, essere voce e coscienza critica, additatrice del non ancora raggiunto. La comunità eucaristica deve essere sovversiva e critica verso tutte le miopi realizzazioni di questo mondo: “La messa ci dovrebbe scaraventare fuori. Anziché dire: La messa è finita, andate in pace, dovremmo poter dire: La pace è finita, andate a messa. Ché se vai a messa finisce la tua pace”.

Buttare la comunità ecclesiale nella mischia della storia: è il programma pastorale per cui spende tutta la sua vita, è l’impegno di quanti lo hanno amato e seguito. ☺

 

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