se ruini e pannella…..
19 Aprile 2010 Share

se ruini e pannella…..

 

             Le parole ci inondano veloci, non approfondite nella loro ampio panorama di significati e contenuti. Oggi sono dibattute, urlate, combattute in opposti schieramenti in nome della “civiltà”, ma poco riflesse e comprese: si fa strada una interpretazione riduttiva dei significati e su essa ci si schiera, ci si scontra, ci si contrappone in una dialettica serrata, finanche violenta.

             Eutanasia è una di queste parole oggi urlate e dibattute. Parola proveniente dal greco e composta di due radici: “eu” (buono, dolce) “thanatos” (morte), da cui ”dolce morte”. L’eutanasia richiama una complessità di aspetti che vorremmo raccogliere nella seguente definizione: «morte indolore, (dolce) direttamente procurata o lasciata accadere e di solito, oggi, medicalmente assistita e attuata, di persone destinate a una vita irrecuperabilmente sofferente o “inutile”, allo scopo di liberare le persone stesse da ogni ulteriore sofferenza e la società da inutili e inefficaci pesi ed impegni».

In primo luogo “morte indolore” o dolce morte, ovvero tutta la casistica racchiusa per i credenti nella “pastorale dei morenti”, per i laici nel trattamento dei “malati terminali”.

A causa di esperienze storiche precise in cui si è chiamata “eutanasia” la pratica di certi aberranti crimini contro l’umanità, la parola si è caricata di “nuovi dolori” o di “nuove paure”, che  molti intravedono solo a sentirne pronunciare il nome. Nei lager nazisti si è procurata direttamente la morte (un secondo aspetto oggi discusso) a bambini, per la sperimentazione sui gemelli e su altre assurde ricerche, ad adulti, per sperimentazione di nuovi farmaci o di nuovi tentativi di operazioni addirittura senza anestesia. Quelle morti  procurate direttamente, da tutti, credenti e laici, sono state ritenute crimini contro l’umanità: la pratica a volte si associò a ragioni  eugenetiche (selezione della “buona razza”), altre fu associata alla uccisione di gruppi particolari e divenne  “genocidio”.

Da queste e innumerevoli altre tragedie e dalla riflessione tormentata che ne è derivata possiamo cogliere, oggi, un frutto bello, maturato nel campo prevalentemente politico del rapporto tra potere e sudditi: nessuno ha “potere” di morte, nessuno può dare la morte: né in nome di Dio, né del re, né del popolo sovrano, né nel nome di una causa: terrorismo, indipendentismo, difesa di sé e della patria. C’è un vento dello Spirito, per i credenti, o di civiltà, per non credenti, che dice: nessuno ha potere di uccidere l’altro.

Avremo con questa vittoria politica cancellato la morte? Sicuramente no, perché la morte è l’ultimo atto del vivere, il compimento della vita. Nessuna vita rimane “incompiuta”: che sia quella di un neonato o di un centenario la vita è racchiusa tra un “principio” che dà inizio e una fine che le dà compimento. Se verrà vissuta come fine di tutto, caduta nel nulla, ritorno al nirvana o incontro con Dio, ecc… siamo di fronte alle interpretazioni della morte. Essa ci “sarà” per ognuno ma nessuno ha “potere” di darla. La cultura dei “testimoni” è molto più convergente di quanto gli “urlatori” la vorrebbero far apparire divisa e in conflitto; si lotta in ogni parte del mondo perché ciò sia riconosciuto e praticato.

E’ tempo che assumiamo sul serio la globalizzazione e che ci accorgiamo e criticamente valutiamo il provincialismo sterile della cultura di un occidente sazio, onnivoro e assetato di potere. Il suo vero volto lo rivela non solo sulla pretesa di “poter” dare la morte, dalle atomiche alla semplice siringa per  il condannato alla pena capitale, ancor meglio nella pratica ormai consolidata, senza più emozioni, del “lasciar morire” perché ritiene irrimediabilmente sofferente o inutile una grande parte di umanità. L’ONU ci informa che ogni tre secondi un essere umano muore di fame, vi si aggiungano i malati di HIV, di lebbra e di tante altre malattie curabili ed ancora i drogati, i non protetti dal tenore economico.

Accompagnare in una vita degna e sostenere il vivente nella propria morte è l’arte che abbiamo dimenticato e che tendiamo a nascondere dietro macchine o terapie che arrivano all’accanimento terapeutico. Scivera l’Abbé Pierre, morto recentemente, «se durante la vita abbiamo tenuto la mano nella mano dei poveri, nell’ora della morte ci troveremo la mano di Dio nella nostra mano».

Se Ruini e Pannella (i nomi che hanno polarizzato lo scontro) fossero corsi da Welby e gli avessero insieme stretto la mano, più che gridare sulla sua sofferenza il potere/non potere di dare la morte – questione ormai superata e di retroguardia – oltre a sentire il calore di Welby, avrebbero rischiato di toccarsi l’un l’altro. Il credente avrebbe creduto che la mano di Dio si aggiungeva a stringerle tutte con quella di Welby, ma non avrebbe né visto, né avvertito la presenza; il non credente parimenti non avrebbe né visto né sentito nulla che lo mettesse a disagio. È l’agire “da Dio”: discreto a tal punto da non mettere a disagio né l’uno né l’altro. ☺

 

 

 

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