tra il dire e il fare
14 Aprile 2010 Share

tra il dire e il fare

 

La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo venne proclamata a nome dei popoli della terra, i veri soggetti  “sovrani” – «Noi popoli delle Nazioni Unite» – rappresentati dai rispettivi Governi. Prima di entrare nell’esame di merito di quanto proclamato e in seguito sviluppato, penso sia utile fare un primo bilancio di come i governi dei popoli si siano rapportati con quanto l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, di cui facevano parte, andava via via codificando e proponendo come attuazione della Dichiarazione del 1948. Con l’adesione ad essa si entrava a far parte dell’Assemblea delle Nazioni e si partecipava al voto dell’Assemblea che promuoveva e offriva ai governi i documenti (patti, convenzioni, ecc…). Ogni governo, sebbene già votato in assemblea l’approvazione di un documento, doveva, a nome del popolo, ratificarlo impegnandosi a trasportare quelle regole sottoscritte nelle proprie legislazioni nazionali. Il primo passaggio fondamentale, non in ordine cronologico, fu quello di trasferire la dichiarazione dei principi nei Patti che ne articolavano il contenuto: ne furono redatti due: Patto sui diritti civili e politici  (raccoglieva la grande tradizione liberale e illuminista) e il Patto sui diritti sociali, economici e culturali (raccoglieva quella proveniente dalla cultura socialista), redatti nel 1966 ed entrati in vigore nel 1973, alla firma di ratifica del 30° Stato; ben 18 anni per la stesura e approvazione e  ben 25 anni per la entrata in vigore.

Emerge un paradosso lampante: il progetto redatto – «l’ideale da raggiungersi da tutti i popoli» – e approvato dall’Assemblea generale verrà ratificato e applicato in modo variegato dai governi, al punto da risultare, a volte, rinnegato o piegato agli interessi “strategici”. Consapevole del rischio di riduzione eccessiva, tento di raccogliere in cinque tipologie i gruppi di stati somiglianti tra loro per il tipo di politica messa in atto nei confronti dei diritti umani.

Un primo gruppo di stati é quello dell’Europa occidentale del secondo dopoguerra confluito in unità, man mano, nella CECA, nella Comunità Europea e, oggi, nell’Unione Europea. Esso,  prima che l’ONU trasformasse la dichiarazione del 1948 nei due Patti di cui sopra, si mosse autonomamente producendo la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali (1950) e la Carta sociale europea (1961). Venivano anticipati i contenuti dei due Patti dell’Onu in un progetto di società democratica e solidale. Tali atti ispirarono un analogo processo di adattamento culturale nelle altre “regioni” del mondo rappresentate da gruppi omogenei di stati. Alla Carta europea (Roma 1950), seguì la Carta dell’OSA – Organizzazione degli stati americani –  (S. José – Portorico, 1963) e la Carta africana (Nairobi, 1984) manca ancora una “Carta asiatica” e dei paesi islamici del vicino ed estremo oriente. Sarà per questo che tutto l’occidente ricco ha trasferito le sue attività economiche nell’oriente non regolato da una comune carta dei diritti umani civili e sociali?

Un secondo gruppo di stati ha messo in naftalina i diritti civili e politici. Ripensiamo, ad es.,  ai paesi del blocco comunista. Il far parte dell’Onu dava ad essi – come a tutte le dittature, sviluppatesi dagli anni cinquanta a fine millennio – un “facciata” pubblica e internazionale pari agli altri stati, ma l’applicazione concreta dei diritti soprattutto civili e politici – di matrice liberale – li vedeva oppositori per una concezione riduttiva di “democrazia”: velo disteso, di fatto, su un sistema politico centralistico e totalitario. Furono impegnati a creare egualitarismo sociale e protezione sociale, nell’assenza, però, di una reale democrazia civile, politica ed economica.

Un terzo gruppo di Stati, come ad es. gli Stati Uniti d’America (USA) che si ritengono, paladini della democrazia civile, politica ed economica, non hanno mai sottoscritto i Patti sui diritti economici sociali e culturali. L’affermato egualitarismo politico stride con disuguaglianze sociali eclatanti; il liberismo economico-finanziario si prefigge, anzi, di togliere dal carico dei governi le situazioni di disagio sociale attraverso modelli di governo detti stato leggero da una parte e opportunità di mercato dall’altra. È noto a tutti come il presidente Clinton, nei suoi due mandati, cercò inutilmente di far approvare leggi che garantissero assistenza sociale e sanitaria a tutti.  

Una quarta categoria di stati si può riconoscerla in quelli denominati “sottosviluppati”, prevalenti nel Sud del globo. Al di là dei sistemi di governo, spesso oscillanti tra gestioni militari totalitarie e fragili democrazie, rappresentano nazioni schiacciate dalla povertà e strozzate da un debito estero contratto con il sistema finanziario delle nazioni ricche del nord. Pur volendo non riescono a promuovere livelli di vita che possano dirsi umani. Pensiamo all’Africa – in particolare nella fascia sub-sahariana – o a paesi di immense ricchezze (Brasile, Argentina, Venezuela) che non riescono e promuovere una politica sociale pari ai bisogni dei propri cittadini.

Un’ultima categoria di stati, sono quelli come la Cina e paesi dell’Opec, produttori di petrolio, in prevalenza islamici: pur in assenza di democrazia, trovano rispetto e accoglienza nelle sessioni mondiali a causa del potere delle proprie economie. Qualche sistema totalitario – ad es. l’Arabia Saudita – che non ha ratificato nessun documento Onu, viene definito stato moderato.

Non la visione condivisa dei diritti e dello sviluppo dei popoli ha guidato e appassionato la politica di molti governi, ma i cosiddetti interessi strategici. In pochi (USA, nuova Russia, stati petroliferi o, infine, Israele) stanno sconvolgendo un possibile e condiviso progetto di umanità. Questi paesi, autotutelati nelle decisioni del G8, del WTO (Commercio mondiale) e della Banca Mondiale, hanno sostituito l’ipotesi e gli obiettivi dell’ONU: non si prefiggono affatto di  promuovere diritti e sviluppo solidale, mentre  hanno avviato una stagione di guerre preventive (Iraq – Afganistan), repressive (Cecenia – Darfour – Timor Est), umanitarie (Kossovo) che stanno riscrivendo la geografia del mondo suddiviso in nuove tipologie: stati amici, nemici, canaglia, terroristi, moderati, ecc… Il risultato è un mondo in continua tensione dove si propugna lo scontro di civiltà, ma, soprattutto, dove in modo strisciante si rovescia il punto cardine delle democrazie politiche: non sono più i governi a rappresentare gli interessi di diritto e sviluppo dei popoli, ma sono i popoli a rappresentare i governi per cui possono essere affamati, bombardati, emarginati in nome dei conflitti strategici dei governi in qualsiasi modo siano giunti al potere. Se una volta si diceva “La religione del Re deve essere la religione del popolo” oggi si vuol affermare che “le sorti del Re sono coincidenti con le sorti dei popoli”. Se così fosse, siamo veramente alla morte delle democrazie, dei diritti, dello sviluppo solidale, di una umanità convocata nella pace e nella convivialità delle differenze. Chiediamoci con onestà: dovrà essere questo il futuro a cui aspiriamo? ☺

 

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