Dare la propria vita per un pugno di sabbia in una giornata di vento sembra essere l’unica risposta possibile al silenzio assordante della esistenza umana.
Quello che giornalmente costruiamo è un mondo nel quale ogni parola risulta inadeguata alla realtà che pretendiamo di raccontare: il dolore, la disperazione, l’infelicità, sono sentimenti relegati a fenomeni patologici: “malattie della psiche umana”. La nostra unica preoccupazione è che tutto accada lontano da noi, pur sapendo che quelle vicende ci appartengono in quanto frammenti dello stesso universo.
Riusciamo ormai a pasteggiare mentre assistiamo in diretta televisiva alla tragedia di popoli che si scannano.
Partecipiamo con composta coscienza cattolica alla discussione su qualcuno che ha deciso di morire perché non ha più risorse da offrire alla sofferenza e pretendiamo di sostituirci a lui nelle decisioni che lo riguardano.
Assistiamo indifferenti alla morte per fame di migliaia di bambini che hanno il solo torto di non essere nati nel civile occidente.
L’indignazione è un sentimento che non riusciamo a vivere perché quello che ci viene servito è un pastone senza sapori né odori; la minestra che ci viene offerta contiene di tutto, il buono e il cattivo, il brutto e il bello, insieme per accontentare tutti e fare la fortuna di pochi, sempre gli stessi. Al secolo del sangue si sostituisce quello dell’indistinto, dove il bene e il male non si combattono più, semplicemente non ci sono più.
Abbiamo affidato il nostro destino a dei sapientoni che vendono la loro dignità al miglior offerente; mestieranti senza scrupoli; pennivendoli pentiti di essere stati giovani; intellettuali del tubo catodico; mercenari sempre pronti a sguainare il proprio lessico per legittimare nefandezze di ogni sorta.
Siamo riusciti a strappare alle nuove generazioni tutto ciò che fa di quella stagione la più bella della vita: il sogno, la voglia di vivere e lottare per un mondo migliore.
Questa volta è toccato a uno di noi.
La redazione
Dare la propria vita per un pugno di sabbia in una giornata di vento sembra essere l’unica risposta possibile al silenzio assordante della esistenza umana.
Quello che giornalmente costruiamo è un mondo nel quale ogni parola risulta inadeguata alla realtà che pretendiamo di raccontare: il dolore, la disperazione, l’infelicità, sono sentimenti relegati a fenomeni patologici: “malattie della psiche umana”. La nostra unica preoccupazione è che tutto accada lontano da noi, pur sapendo che quelle vicende ci appartengono in quanto frammenti dello stesso universo.
Riusciamo ormai a pasteggiare mentre assistiamo in diretta televisiva alla tragedia di popoli che si scannano.
Partecipiamo con composta coscienza cattolica alla discussione su qualcuno che ha deciso di morire perché non ha più risorse da offrire alla sofferenza e pretendiamo di sostituirci a lui nelle decisioni che lo riguardano.
Assistiamo indifferenti alla morte per fame di migliaia di bambini che hanno il solo torto di non essere nati nel civile occidente.
L’indignazione è un sentimento che non riusciamo a vivere perché quello che ci viene servito è un pastone senza sapori né odori; la minestra che ci viene offerta contiene di tutto, il buono e il cattivo, il brutto e il bello, insieme per accontentare tutti e fare la fortuna di pochi, sempre gli stessi. Al secolo del sangue si sostituisce quello dell’indistinto, dove il bene e il male non si combattono più, semplicemente non ci sono più.
Abbiamo affidato il nostro destino a dei sapientoni che vendono la loro dignità al miglior offerente; mestieranti senza scrupoli; pennivendoli pentiti di essere stati giovani; intellettuali del tubo catodico; mercenari sempre pronti a sguainare il proprio lessico per legittimare nefandezze di ogni sorta.
Siamo riusciti a strappare alle nuove generazioni tutto ciò che fa di quella stagione la più bella della vita: il sogno, la voglia di vivere e lottare per un mondo migliore.
Dare la propria vita per un pugno di sabbia in una giornata di vento sembra essere l’unica risposta possibile al silenzio assordante della esistenza umana.
Quello che giornalmente costruiamo è un mondo nel quale ogni parola risulta inadeguata alla realtà che pretendiamo di raccontare: il dolore, la disperazione, l’infelicità, sono sentimenti relegati a fenomeni patologici: “malattie della psiche umana”. La nostra unica preoccupazione è che tutto accada lontano da noi, pur sapendo che quelle vicende ci appartengono in quanto frammenti dello stesso universo.
Riusciamo ormai a pasteggiare mentre assistiamo in diretta televisiva alla tragedia di popoli che si scannano.
Partecipiamo con composta coscienza cattolica alla discussione su qualcuno che ha deciso di morire perché non ha più risorse da offrire alla sofferenza e pretendiamo di sostituirci a lui nelle decisioni che lo riguardano.
Assistiamo indifferenti alla morte per fame di migliaia di bambini che hanno il solo torto di non essere nati nel civile occidente.
L’indignazione è un sentimento che non riusciamo a vivere perché quello che ci viene servito è un pastone senza sapori né odori; la minestra che ci viene offerta contiene di tutto, il buono e il cattivo, il brutto e il bello, insieme per accontentare tutti e fare la fortuna di pochi, sempre gli stessi. Al secolo del sangue si sostituisce quello dell’indistinto, dove il bene e il male non si combattono più, semplicemente non ci sono più.
Abbiamo affidato il nostro destino a dei sapientoni che vendono la loro dignità al miglior offerente; mestieranti senza scrupoli; pennivendoli pentiti di essere stati giovani; intellettuali del tubo catodico; mercenari sempre pronti a sguainare il proprio lessico per legittimare nefandezze di ogni sorta.
Siamo riusciti a strappare alle nuove generazioni tutto ciò che fa di quella stagione la più bella della vita: il sogno, la voglia di vivere e lottare per un mondo migliore.
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