alza le vele
13 Aprile 2010 Share

alza le vele

 

“Per correr miglior acque alza le vele

omai la navicella del mio ingegno,

che lascia dietro a sé mar sì crudele;

………………….

libertà va cercando, ch'è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta”.

(Dante A. Divina Commedia, Purgatorio, canto 1)

Dante, uscito dalle tenebre infernali, contempla l'emisfero celeste dove brillano quattro stelle, le quattro virtù cardinali: (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza). La luce di queste stelle si riflette sul volto di Catone, custode del Purgatorio, morto suicida ad Utica per sottrarsi alla tirannide di Cesare. Catone, ascoltate le spiegazioni e le richieste di Virgilio, consente ai due poeti di visitare il regno ma solo dopo che Dante abbia compiuto alcuni atti di purificazione: il volto viene lavato e i fianchi del poeta vengono cinti da un giunco, segno di umiltà.

Mi pare fosse Kant ad affermare di contemplare – cito a memoria – due cose: «Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me».

Per continuare a muoversi nei percorsi della morale – urlata nelle piazze ma cordialmente accantonata nella vita – occorre alzare le vele della navicella del nostro ingegno e contemplare «le stelle». Queste, data la distanza, non accecano come il sole; da millenni, invece, sono contemplate ad occhio nudo per orientare il percorso degli uomini in terra e in mare.

Il cielo delle nostre città, prevalenti dimore dei contemporanei, è così nascosto dallo smog da non consentirci il gusto dei colori del cielo, né delle luci delle stelle: metafora triste della odierna condizione personale e collettiva. Impotenti, ci addolora l’esperienza di vivere terrestramente sommersi da oggetti; abbiamo possibilità inaudite ma ci ritroviamo smarriti per gli orientamenti da assumere nella vita personale, comunitaria, planetaria. Non la fatica del cammino né l’assenza delle possibilità ci provano, ma il camminare a vuoto, “senza senso”, senza orizzonti; privi di luoghi abitabili a “misura d’uomo”, di “dimore” accoglienti per riposare dal percorso e ripartire  ritemprati.

I poeti e gli artisti, sentinelle vigili, l’hanno rappresentato, in ogni stagione e luogo: mi sovviene la figura di Godot con il suo viaggio senza arrivo da nessuna parte.

I maestri e testimoni ci hanno ammonito e invitato ad alzare lo sguardo, come il maestro di Nazareth “cercate prima il Regno di Dio e tutto vi sarà dato in abbondanza”, o Paolo, suo nemico divenuto discepolo dopo un incontro vivo e vivace, che continuava a ripetere ai suoi fratelli: «se siete risorti con Cristo (ritornati dalla morte alla vita) cercate le cose di lassù…». Noi continuiamo a fissare le punte delle scarpe, ma non il sentiero che si apre davanti, quando c’è, né proviamo a tracciarne di nuovi.

Il percorso compiuto da chi ci ha preceduti ci lascia due eredità preziose: cercare e dare senso o significato all’uomo, alla sua opera, al tempo, al mondo, alle cose,  all’ulteriore che ci viene incontro, impegno condensato nella domanda popolare: «che senso ha?», insieme ad un secondo dono, conquistato a caro prezzo: un processo di vita – ininterrotto ma ritmato da impegni e riposo – compiuto nella libertà e responsabilità personale e comunitaria; ricordiamo il detto: «fare il primo passo… non più lungo della gamba».

Nella modernità ci siamo arricchiti di “metodi” per le conoscenze (si passa da “la scienza” a “le scienze”) e sono nate scienze sull’agire dell’uomo e la gestione delle proprie relazioni (sociologia, psicologia, psichiatria, statistica, etnologia, finanche l’etologia per lo studio del comportamento animale) ma si insiste ancora nel vedere un conflitto tra gli uomini il cui sapere cerca il senso/significato della vita (religioni, costumi, tradizioni, morali, leggi) con il sapere di quelli che cercano l’ulteriore delle possibilità. Questi sono detti specialisti (scienziati), si muovono su molteplici percorsi (moltepli- cità dei saperi) e cercano mezzi e risposte (ragione strumentale).

Per riunire gli uomini dei diversi saperi e valorizzarli, sembra sufficiente la constatazione pratica che nella vita umana individuale e collettiva, interpretata e disciplinata da religioni e altre collettività, esistono vittime. Moltissime di esse hanno a che fare con la nostra visione della natura, della società e con i mezzi che mettiamo in opera, qualunque siano le considerazioni ulteriori.

Dal Crocifisso in poi le vittime si fanno riconoscibili e ci pongono di fronte all’unico dilemma che ci  rende coscienti di noi stessi e del valore del nostro operare: decidere se vogliamo salvarle o eliminarle… tertium non datur! Non è scelta da poco né  senza prezzo. Ci sovviene, ancora Dante, nello stesso canto, con la figura di Catone, suicida per non soggiacere alla tirannide, riconosciuto da Virgilio come colui che «libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta».

Muovendo da tali premesse, non da teorie, è possibile, anzi doveroso, incontrarsi in un cammino morale che dia  «senso» all’oggi e all’ulteriore, che dia «valore» all’agire personale e collettivo. «Lasciar dietro a sé mar sì crudele», levar le vele della «navicella del nostro ingegno» e tornare a guardar le quattro stelle, al cui riflesso Catone è riconoscibile, e, infine, «correr miglior acque» si richiede che prima avvenga ciò che Catone impose a Dante: lavare il volto, “purificare la memoria”, le idee, le prassi e assumere per cintura un giunco: con umiltà su nuove strade, non basta ripetere i principi “perenni” o “non negoziabili” ma ri-negoziarli ovvero spenderli in questa storia. ☺

 

eoc

eoc