Avevo 14 anni. A quell’età senti sempre che sta per succedere qualcosa di eclatante, di sconvolgente. Senti che le domande che ti assalgono non trovano risposte dentro le quattro mura in cui sei sempre vissuto. Queste cominciano a diventare improvvisamente strette, opprimenti. Catapultato all’esterno, hai l’impressione di poter finalmente esprimere te stesso con le modalità che ti sono più congeniali.
L’illusione, purtroppo non dura a lungo. Vedevo un mondo di persone perennemente in corsa come una schiera infinita di centometristi. Ma, mentre questi sanno bene dov’è il loro traguardo, quelle mi apparivano tanto decise nella loro corsa, quanto inconsapevoli del senso della propria direzione.
In fondo, cominciavamo tutti ad assaggiare quanto fosse importante e costoso doversi integrare in una società in cui è necessario avere un titolo, un ruolo per essere accettato. In questo scenario, troppi dubbi e incertezze possono rallentarti la corsa ed aumentare, così, il distacco tra te e gli altri.
Ma io non avevo intenzione di subirlo quel distacco, preferivo, invece, sentirmene l’artefice. A scuola scelsi di stare alla larga dai secchioni avvicinandomi solo a coloro che, come me, non accettavano schemi insensati e precostituiti.
Presto il fascino per la trasgressione mi portò a farmi. Ecco, ora avevo la mia strada – pensai – e, sebbene neanch’io conoscessi il senso, almeno ero certo che fosse opposto a quello degli altri. Se ciò che contava era avere un titolo, un ruolo, bene, adesso anch’io ne avevo uno: il tossicodipendente.
Ho conosciuto Aziz quattro mesi fa, quando la comunità di recupero per tossicodipendenti in cui vivo da due anni, ha deciso di offrirgli ospitalità, sebbene non abbia mai avuto problemi di droga. Non so molto di lui, nonostante condividiamo quotidianamente ogni attività del centro (terapeutica, lavorativa, ricreativa e pure pasti e stanza). È un tipo molto riservato, timido, spesso diffidente. Anche i suoi 14 anni furono segnati da avvenimenti stravolgenti.
Nato in Marocco da allevatori di bestiame, tra i numerosi fratelli, Aziz era ritenuto il più responsabile, affidabile ed era l’unico ad andare bene a scuola. Dalle mie parti quelle qualità gli avrebbero fatto meritare l’appellativo di “secchione”; lì, invece, indussero i suoi genitori a scommettere su di lui come il più indicato a tentare la fortuna in Europa. Aziz non era particolarmente angosciato per la sua partenza: affrontò la sfida con l’incosciente coraggio di un quattordicenne. Del resto, aveva visto auto sportive, ampie case ed altri beni di lusso appartenere a molti emigranti marocchini, partiti poveri e tornati relativamente ricchi.
A dieci anni da allora, Aziz non ha più fatto ritorno in Marocco. Non ha trovato la fortuna che si aspettava, sente la mancanza del suo Paese ma non è di quel genere di persone che usano lamentarsi. Ha condotto una vita sempre molto precaria lavorando come operaio, manovale, agricoltore, privato degli affetti familiari, senza grossi punti di riferimento imparando a convivere con i problemi economici e con le difficoltà ad ambientarsi e ad integrarsi in una società molto diversa da quella in cui è cresciuto. Problemi troppo grossi per potersi concedere il tempo per riflettere sui dubbi, le incertezze, le aspettative, le emozioni e le paure che accompagnano un adolescente, sia esso un italiano, un marocchino, o di qualunque altro Paese.
La struttura in cui viviamo oggi io e Aziz non ha cancelli. Ve ne è uno disegnato sull’asfalto, all’ingresso. Sopra c’è scritto Convivialità delle differenze. All’interno vi sono delle persone che attraverso la condivisione dei loro vissuti si raccontano, si confrontano, si riconoscono ed inseguono insieme un obiettivo troppo a lungo trascurato: la ricerca di se stessi. ☺
coopilnoce@libero.it
Avevo 14 anni. A quell’età senti sempre che sta per succedere qualcosa di eclatante, di sconvolgente. Senti che le domande che ti assalgono non trovano risposte dentro le quattro mura in cui sei sempre vissuto. Queste cominciano a diventare improvvisamente strette, opprimenti. Catapultato all’esterno, hai l’impressione di poter finalmente esprimere te stesso con le modalità che ti sono più congeniali.
L’illusione, purtroppo non dura a lungo. Vedevo un mondo di persone perennemente in corsa come una schiera infinita di centometristi. Ma, mentre questi sanno bene dov’è il loro traguardo, quelle mi apparivano tanto decise nella loro corsa, quanto inconsapevoli del senso della propria direzione.
In fondo, cominciavamo tutti ad assaggiare quanto fosse importante e costoso doversi integrare in una società in cui è necessario avere un titolo, un ruolo per essere accettato. In questo scenario, troppi dubbi e incertezze possono rallentarti la corsa ed aumentare, così, il distacco tra te e gli altri.
Ma io non avevo intenzione di subirlo quel distacco, preferivo, invece, sentirmene l’artefice. A scuola scelsi di stare alla larga dai secchioni avvicinandomi solo a coloro che, come me, non accettavano schemi insensati e precostituiti.
Presto il fascino per la trasgressione mi portò a farmi. Ecco, ora avevo la mia strada – pensai – e, sebbene neanch’io conoscessi il senso, almeno ero certo che fosse opposto a quello degli altri. Se ciò che contava era avere un titolo, un ruolo, bene, adesso anch’io ne avevo uno: il tossicodipendente.
Ho conosciuto Aziz quattro mesi fa, quando la comunità di recupero per tossicodipendenti in cui vivo da due anni, ha deciso di offrirgli ospitalità, sebbene non abbia mai avuto problemi di droga. Non so molto di lui, nonostante condividiamo quotidianamente ogni attività del centro (terapeutica, lavorativa, ricreativa e pure pasti e stanza). È un tipo molto riservato, timido, spesso diffidente. Anche i suoi 14 anni furono segnati da avvenimenti stravolgenti.
Nato in Marocco da allevatori di bestiame, tra i numerosi fratelli, Aziz era ritenuto il più responsabile, affidabile ed era l’unico ad andare bene a scuola. Dalle mie parti quelle qualità gli avrebbero fatto meritare l’appellativo di “secchione”; lì, invece, indussero i suoi genitori a scommettere su di lui come il più indicato a tentare la fortuna in Europa. Aziz non era particolarmente angosciato per la sua partenza: affrontò la sfida con l’incosciente coraggio di un quattordicenne. Del resto, aveva visto auto sportive, ampie case ed altri beni di lusso appartenere a molti emigranti marocchini, partiti poveri e tornati relativamente ricchi.
A dieci anni da allora, Aziz non ha più fatto ritorno in Marocco. Non ha trovato la fortuna che si aspettava, sente la mancanza del suo Paese ma non è di quel genere di persone che usano lamentarsi. Ha condotto una vita sempre molto precaria lavorando come operaio, manovale, agricoltore, privato degli affetti familiari, senza grossi punti di riferimento imparando a convivere con i problemi economici e con le difficoltà ad ambientarsi e ad integrarsi in una società molto diversa da quella in cui è cresciuto. Problemi troppo grossi per potersi concedere il tempo per riflettere sui dubbi, le incertezze, le aspettative, le emozioni e le paure che accompagnano un adolescente, sia esso un italiano, un marocchino, o di qualunque altro Paese.
La struttura in cui viviamo oggi io e Aziz non ha cancelli. Ve ne è uno disegnato sull’asfalto, all’ingresso. Sopra c’è scritto Convivialità delle differenze. All’interno vi sono delle persone che attraverso la condivisione dei loro vissuti si raccontano, si confrontano, si riconoscono ed inseguono insieme un obiettivo troppo a lungo trascurato: la ricerca di se stessi. ☺
Avevo 14 anni. A quell’età senti sempre che sta per succedere qualcosa di eclatante, di sconvolgente. Senti che le domande che ti assalgono non trovano risposte dentro le quattro mura in cui sei sempre vissuto. Queste cominciano a diventare improvvisamente strette, opprimenti. Catapultato all’esterno, hai l’impressione di poter finalmente esprimere te stesso con le modalità che ti sono più congeniali.
L’illusione, purtroppo non dura a lungo. Vedevo un mondo di persone perennemente in corsa come una schiera infinita di centometristi. Ma, mentre questi sanno bene dov’è il loro traguardo, quelle mi apparivano tanto decise nella loro corsa, quanto inconsapevoli del senso della propria direzione.
In fondo, cominciavamo tutti ad assaggiare quanto fosse importante e costoso doversi integrare in una società in cui è necessario avere un titolo, un ruolo per essere accettato. In questo scenario, troppi dubbi e incertezze possono rallentarti la corsa ed aumentare, così, il distacco tra te e gli altri.
Ma io non avevo intenzione di subirlo quel distacco, preferivo, invece, sentirmene l’artefice. A scuola scelsi di stare alla larga dai secchioni avvicinandomi solo a coloro che, come me, non accettavano schemi insensati e precostituiti.
Presto il fascino per la trasgressione mi portò a farmi. Ecco, ora avevo la mia strada – pensai – e, sebbene neanch’io conoscessi il senso, almeno ero certo che fosse opposto a quello degli altri. Se ciò che contava era avere un titolo, un ruolo, bene, adesso anch’io ne avevo uno: il tossicodipendente.
Ho conosciuto Aziz quattro mesi fa, quando la comunità di recupero per tossicodipendenti in cui vivo da due anni, ha deciso di offrirgli ospitalità, sebbene non abbia mai avuto problemi di droga. Non so molto di lui, nonostante condividiamo quotidianamente ogni attività del centro (terapeutica, lavorativa, ricreativa e pure pasti e stanza). È un tipo molto riservato, timido, spesso diffidente. Anche i suoi 14 anni furono segnati da avvenimenti stravolgenti.
Nato in Marocco da allevatori di bestiame, tra i numerosi fratelli, Aziz era ritenuto il più responsabile, affidabile ed era l’unico ad andare bene a scuola. Dalle mie parti quelle qualità gli avrebbero fatto meritare l’appellativo di “secchione”; lì, invece, indussero i suoi genitori a scommettere su di lui come il più indicato a tentare la fortuna in Europa. Aziz non era particolarmente angosciato per la sua partenza: affrontò la sfida con l’incosciente coraggio di un quattordicenne. Del resto, aveva visto auto sportive, ampie case ed altri beni di lusso appartenere a molti emigranti marocchini, partiti poveri e tornati relativamente ricchi.
A dieci anni da allora, Aziz non ha più fatto ritorno in Marocco. Non ha trovato la fortuna che si aspettava, sente la mancanza del suo Paese ma non è di quel genere di persone che usano lamentarsi. Ha condotto una vita sempre molto precaria lavorando come operaio, manovale, agricoltore, privato degli affetti familiari, senza grossi punti di riferimento imparando a convivere con i problemi economici e con le difficoltà ad ambientarsi e ad integrarsi in una società molto diversa da quella in cui è cresciuto. Problemi troppo grossi per potersi concedere il tempo per riflettere sui dubbi, le incertezze, le aspettative, le emozioni e le paure che accompagnano un adolescente, sia esso un italiano, un marocchino, o di qualunque altro Paese.
La struttura in cui viviamo oggi io e Aziz non ha cancelli. Ve ne è uno disegnato sull’asfalto, all’ingresso. Sopra c’è scritto Convivialità delle differenze. All’interno vi sono delle persone che attraverso la condivisione dei loro vissuti si raccontano, si confrontano, si riconoscono ed inseguono insieme un obiettivo troppo a lungo trascurato: la ricerca di se stessi. ☺
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