la cura di sè
31 Agosto 2010 Share

la cura di sè

 

Disagio di civiltà: leit-motiv che pervade le nostre giornate, che accompagna la lettura del quotidiano, la passeggiata con gli amici, il viaggio di evasione, la stesura anche di queste righe che riprendono il dialogo con i lettori, prediligendo, consentitemelo, i più giovani. A tentare di comprendere, insieme, la direzione del loro cammino.

Disagio di civiltà che vede la sintassi relazionale fortemente indebolita. Accantonata la prassi, un tempo naturale, della cura di sé e degli altri, imperante, al posto suo, la voglia di isolamento.

Ventiquattro anni di contatto quotidiano con le cosiddette giovani generazioni mi portano a rilevare che lo scambio spontaneo di emozioni tra di loro e con noi adulti si è quasi del tutto rappreso; il giovane di oggi, se pungolato, mi rimanda quasi sempre la sua fatica di entrare in contatto con il desiderio della propria vita. Nella vita reale bisogni e desiderio si intrecciano in un dinamismo complesso che non sempre è facile distinguere.

Mi sembra di percepire che ciò che i giovani si aspettano da noi è di insegnare loro a divenire consapevoli dei propri bisogni e ad accompagnarli nella capacità di scegliere se soddisfarli, e soprattutto sapere accettare la momentanea frustrazione. Guai se nella nostra esperienza di vita ci fermassimo a rispondere solo ai bisogni! Il desiderio, invece che raggiungere una meta, si disperderebbe in mille rivoli. Un esempio elementare: che cosa spinge un giovane  a far parte di un gruppo? Solo la paura di rimanere da solo (risposta ad un bisogno) o la volontà e la tenacia di creare legami profondi di amicizia?

Il paradosso più preoccupante è che mentre il mondo economico si adopera in ogni modo per spingerci tutti al godimento, complice soprattutto il circuito mediatico, l’agenzia educativa per antonomasia, la scuola, tenta, ahimè invano, di disciplinare e normalizzare, trascurando il più delle volte di offrire agli “alunni” rimedi conoscitivi per governare il proprio desiderio e la propria pulsione.

Si ostina, la scuola, a perpetuare un modello educativo in cui prevalgono regole rigide e severe, indiscutibili e inattaccabili, imparentate con una tradizione secolare e cristallizzata.

Un principio oggi stenta ad essere fatto proprio dagli educatori: non basta più conoscere per essere, e meno che mai è sufficiente proporre unicamente “norme” di comportamento che, se non rispettate, scatenano quasi sempre da parte della scuola l’irrigidimento valutativo.

Appena trent’anni fa eravamo convinti che bastava conoscere tutto per tirare fuori se stessi. Ora che il sapere non è più monolitico ma reticolare e sempre più frammentario, è auspicabile un nuovo patto tra vecchi e giovani, tra adulti educatori e nuove generazioni.

Senza confidare purtroppo nella famiglia, perché anche questa istituzione, che sino ad una generazione fa prendeva parte consapevolmente al processo educativo, non ci è più di aiuto. Venuta meno la legge simbolica del padre, si è rimpicciolita la figura cardine dell’autorità e quindi l’istituto familiare, che a quest’ultima faceva riferimento. E’ tramontato, d’altra parte, anche il “maestro”, che nella scuola rivestiva del “padre” il ruolo e del padre esaltava i desideri, veicolando un concetto di studio coincidente con termini come riscatto sociale, positiva immagine di sé, potenziamento della propria forza vitale.

Del mondo scolastico la cronaca ci rimanda quasi solo i disturbi del comportamento: anoressia, narcisismo, bullismo.

Ma io voglio continuare a credere che l’antica prassi possa ancora una volta salvarci: insegnare ai giovani la cura di sé. Non nel senso di accudimento perpetuo, quello sperimentato da bambini, quando non erano in grado di soddisfare autonomamente i propri bisogni, e a profusione elargito dai genitori odierni, sin troppo premurosi con figli in tarda adolescenza. L’accudimento ad oltranza solleva dalla responsabilità individuale e inibisce l’autonomia del giovane che trova più conveniente farsi scudo di una persona forte che al proprio posto compia scelte e decisioni piuttosto che dotarsi di “ali” per volare. Di qui ad osannare il B. di turno il passo è breve!

 Sembra mancare all’adulto la pazienza del gatto della favola di L. Sepulveda; instancabilmente il felino, pur percependosi completamente diverso, accompagna la crescita di una gabbianella, i suoi ripetuti tentativi di volo, i progressi, le cadute e gli inevitabili insuccessi. Obiettivo finale: consentirle di volare.

Significativo sarà allora quel traguardo che prescinde dal compiacimento dell’approvazione dell’altro, e mira a correre il rischio dell’imprevisto Curare se stessi non è accettare supinamente modelli scelti da altri, soprattutto se il fine si riduce alla vertigine della momentanea soddisfazione.

Curare se stessi per evitare di sperimentare in seguito cocenti delusioni, per destrutturare quel processo di soggettività nel quale rischiamo tutti di rimanere intrappolati, per affrontare un mondo sempre più fluido e magmatico. ☺

annama.mastropietro@tiscali.it

 

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