L’etica del volto
Capita che i sogni che facciamo al mattino appena prima di alzarci, veri da poterli toccare con la mano, svaniscano dalla nostra mente quanto più cerchiamo di ripeterli tra noi e noi, di riacchiapparli, per viverne di nuovo i sensi o cercarne la ragione nascosta. Eppure, solo poco avanti erano incredibilmente netti.
Così il volto delle persone care e ora lontane da noi: ci balugina d’improvviso nella memoria, quando meno ce lo aspettiamo, ma, se tentiamo di fissarne l’immagine perché resti con noi o di riprodurre nella mente il timbro di voce di quel volto, il tenore del suo sorriso, il singolare tic che lo caratterizzava, velocemente l’immagine si dilegua, lasciandoci soli e delusi da noi stessi, quasi arrabbiati con la nostra labile memoria o peggio dubbiosi circa la tenuta dei nostri stessi affetti.
Dell’evanescenza dei ricordi, della memoria che “si sfolla” scrive Eugenio Montale in una celebre sua poesia tratta dalla raccolta Le occasioni e intitolata “Non recidere, forbice, quel volto”: il poeta dapprima si rivolge supplice alla “forbice”, evidentemente la macchina potatrice che vive in simbiosi con la nostra memoria, perché essa non recida il volto della donna amata, immergendolo nella nebbia-oblìo di sempre; poi, in un seguito dal ritmo meccanico e dolente insieme, prende atto della vanità della sua preghiera, inascoltata nel freddo che cala, mentre “Duro il colpo svetta./ E l’acacia ferita da sé scrolla/ il guscio di cicala/ nella prima belletta di Novembre”.
Straniante a tutta prima, questo componimento, come gran parte della versificazione giovanile ed adulta di Montale, si fonda sulla pratica poetica del “correlativo oggettivo”, che consiste in buona sostanza nell’utilizzare oggetti per evocare stati e affetti dell’animo umano: qui la “forbice” ed il “duro colpo” che svetta alludono all’ascia del tempo, che ci rende dimentichi; l’“acacia ferita” che scrolla da sé “il guscio di cicala” è l’edificio lubrico della nostra memoria con uno dei suoi tanti mattoni-ricordo; la “belletta di Novembre” significa l’impermanenza degli uomini, che, come il guscio di cicala quando cade nella melma, scivolano nell’ oscurità in prima persona e fanno essi stessi scivolare gli altri dalla loro mente.
La poesia di Montale è insomma una descrizione della dolorosa esperienza della perdita della memoria ed insieme una riflessione austera sulla precarietà della condizione degli uomini, che non riescono ad accedere ai propri ricordi per sfuggire all’ insensatezza della loro condizione presente; l’oblìo di cui parla il poeta non è che la misura del nostro limite, un qualcosa di fisico, nel senso di “naturale” e, al pari di molti eventi della Natura, pare essere scandito da un automatismo freddo, dunque del tutto incolpevole.
Vi è, però, anche un oblìo colpevole, perché prodotto dalla nostra mancanza di attenzione e curiosità, di emozione e di cura, di sentimento verso i volti “altri”. Don Tonino Bello la chiamava “la dissolvenza del volto” e proponeva l’etica del volto e dello sguardo come fondamento di pace; così scriveva: “…le guerre, tutte le guerre, da quelle interiori a quelle stellari, trovano la loro ultima radice nella uniformizzazione dei volti. Nella dissolvenza del volto. Nella perdita dell’identità personale. Nella prevaricazione del numero di matricola su nome, cognome e indirizzo. Nella incapacità di guardarsi negli occhi…”.
Le parole di Don Tonino Bello spesso mi sono venute in mente nel corso di questi ormai due mesi di delirio guerrafondaio, di difesa ad oltranza della belligeranza in nome della “guerra giusta”, di santificazione delle armi, di telecamere che, come detta il trend osceno della real-tv, si ostinano a documentare la guerra a furia di cadaveri coperti, uomini, donne, bambini senza volto e dei quali mai sapremo il nome; nel mentre si è assistito, quasi fosse cosa del tutto ovvia, ad una sorta di classificazione di merito dei profughi e delle guerre stesse, ora più ora meno degni di sguardi umani ed interventi umanitari.
In questo deserto di umanità vera che sta diventando pericolosa abitudine, le parole di papa Francesco sono come acqua di fonte: più volte e da ultimo nel messaggio urbi et orbi pronunciato il giorno di Pasqua, solo tra i grandi attori della Terra, il Papa ha sottolineato la crudeltà di ogni guerra, ha stigmatizzato l’uso delle armi, ha invitato cristiani e non a dire ad alta voce il loro desiderio di pace, a manifestarlo “dai balconi”, a mettere in gioco il proprio volto per la pace, esattamente come fa lui stesso, contemplando spiritualmente il volto di ogni uomo e recuperando quella che don Tonino Bello avrebbe chiamato l’ “etica del volto”, unica etica di pace.
In una sua toccante poesia, padre Davide Maria Turoldo elenca i doni che vorrebbe fare al Signore, giocare coi bambini in periferia, lasciare un fiore alla finestra dei poveri, suonare con le sue mani le campane, andare nel bosco ad abbracciare gli alberi e ascoltare gli usignoli; infine scrive: “E poi andrò a lavarmi nel fiume e all’alba passerò sulle porte di tutti i miei fratelli e dirò a ogni casa: Pace”.
Alle nostre porte è venuto papa Francesco: sta a noi l’umiltà di non ignorarne il volto e il dolce grido auspice di Pace.☺
