Che cos’è una vibrazione?
29 Marzo 2014 Share

Che cos’è una vibrazione?

(In margine a La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino)

Prima del riconoscimento della statuetta d’oro il film di Paolo Sorrentino ha incontrato più detrattori che estimatori. Perché?

Più di un  critico ha affermato: “Non c’è trama”.

È vero, la trama tradizionale, quella per intenderci alla “C’era una volta”, dal film di Sorrentino è assente. Ci sono però tanti personaggi, ognuno con una sua trama, una sua storia. Ad accomunarli tutti sarebbe una incapacità: il non aver saputo individuare, rincorrere, acciuffare, raggiungere “la bellezza”, termine omnicomprensivo e perciò quanto mai difficile da catalogare o imprigionare entro definiti confini.

Il messaggio del film è, a mio parere, di una sconcertante e sorprendente immediatezza: “tutto è bello”, perché tutto suscita desiderio, stupore, meraviglia, curiosità. Ma se tutto è bello, lo sforzo dello spettatore deve essere quello di memorizzare ogni fotogramma del film, perché ciò che inizialmente sembra incomprensibile troverà alla fine il suo posto, la sua giusta collocazione: i tasselli si ricomporranno, tutti. “E’ bello tutto” e dunque in un elenco, di necessità riduttivo, pongo senza dubbio la Roma barocca, le citazioni d’autore che nelle sequenze si rincorrono per bocca dei personaggi, i fenicotteri sorpresi sulla terrazza prima della migrazione, la giraffa che di colpo scompare ad opera del trucco dell’illusionista, la performance artistica di Caterina (non la costrizione dei genitori-manager che ne sfruttano il talento e ne mortificano sogni e aspirazioni); l’intervista “sensazionale”, e allo stesso tempo fallimentare, di Jap alla “star delle capate nel muro”; la domanda improponibile rivolta da Jap alla star e, direttamente proporzionale, l’ incapacità della donna di definire “che cos’è una vibrazione”.

Accanto ai tanti segnali rincorrentisi nel film, vedi ad esempio il tonfo del turista giapponese, il tuffo nel Tevere dell’ esibizionista di turno, il tonfo del prelato dopo l’omaggio alla “santa”, il tonfo della stessa pantofola della “santa”, i personaggi e la loro “bellezza”: Romano, che cerca la salvezza nel paese d’origine dopo la stanchezza e la delusione della città eterna, di cui ha colto solo la guasta mondanità; Ramona, che non confessa a nessuno la sua malattia, ma che per una sera, grazie alle chiavi di un insolito quanto misterioso custode, ha la possibilità di contemplare i tesori dei palazzi più belli di Roma; Stefania, inguaribile pseudointellettuale retrò, per molti versi simile ad una “sconosciuta” delle prime pagine de L’immortalità di Milan Kundera. Il paragone si impone: ne L’ immortalità di Kundera la scena è la seguente: Agnes, donna dall’apparente età di sessanta, sessantacinque anni, incontra in piscina una sconosciuta. Di lei ricorda: “Era venuta per rendere noto a tutte le donne presenti che 1) nella sauna le piaceva il caldo, 2) adorava l’orgoglio, 3) non sopportava la modestia, 4) amava la doccia fredda, 5) odiava la doccia calda. Con queste cinque linee aveva disegnato il suo autoritratto, con questi cinque punti aveva definito il suo io e l’aveva offerto a tutte. E non l’aveva offerto con modestia (l’ha pur detto che non sopporta la modestia), ma con combattività. Aveva usato verbi appassionati: adoro, non sopporto, mi fa orrore, come se volesse dire che per ognuna delle cinque linee del ritratto, per ognuno dei cinque punti della definizione, era pronta a lottare”.

Mi piace immaginare Paolo Sorrentino nelle vesti di Caterina, la bambina costretta ad esibirsi, suo malgrado, in bizzarre performance artistiche  sebbene il suo desiderio sia al momento quello di giocare e diventare in futuro una veterinaria. Come Caterina scaglia su di un fondale bianco, con una violenza che non le si confà, tutti i secchi di colori, così il regista-demiurgo ci scaglia contro una realtà a prima vista informe, che non a tutti è dato decifrare e sopportare. Eppure questa realtà, tipi umani e situazioni, restituisce della vita lo spettacolo variegato, mai uguale a se stesso, “la sfumatura” del romanzo Hanno tutti ragione dello stesso Sorrentino: le storie, le assurdità, le contraddizioni, i fallimenti, la volontà di cambiamento. Tutto filtrato attraverso lo sguardo magnetico di Jap Gambardella. Uno sguardo ironico, sarcastico, amaro, appassionato, struggente, incantato, cinico, tenero, addolorato, generoso, triste, sornione, caustico, innamorato, complice, beffardo, discreto, deluso, attento, cauto, rispettoso, sensuale, indulgente, dolce, sardonico, impassibile, attonito, vorace, erratico, ma soprattutto curioso.

Dietro la sfrontatezza di Jap si nasconde quella discrezione tutta “guicciardiniana”, che consiste nella capacità di analizzare l’infinita varietà dei fatti, per poterne eventualmente modificare lo svolgimento.

A partire dal giorno del suo sessantacinquesimo compleanno Jap Gambardella trova il modo di ripensare a se stesso e di ricominciare: un uomo in formazione, dunque, la cui svolta è anticipata dal pianto sincero, improvviso, tutt’altro che plateale, che lo assale mentre sorregge la bara di Andrea, il ragazzo giudicato dalla madre e da tutti “sopra le righe”: un incompreso, suicida, perché incapace di trovare un equilibrio.

Tutto mi è piaciuto del film di Paolo Sorrentino. Perché? Vi rispondo con Cesare Pavese: “Ci colpiscono degli altri (qui: di tutte le storie dei personaggi di questo film) le parole che risuonano in una zona già nostra -che già viviamo- e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi” (Il mestiere di vivere, 3 dicembre).

“Ma che cos’è una vibrazione?” ripete fino all’esaurimento Jap alla “star delle capate nel muro”.

Forse la risposta alla provocazione è tutta qui. ☺

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