Chi, passando almeno una volta in questo periodo in via Roma, a Bonefro, presso il cosiddetto “casino” di don Filippo Baccari, oggi proprietà della famiglia Lalli, non ha notato, a terra, quei frutti misteriosi molto grossi e dalla forma strana? Sono esattamente le infruttescenze della Maclura pomifera o Toxilon pomiferum, una pianta chiamata maclura e nota tra noi bonefrani come’i palle don Bblippe, proprio per i suoi frutti. Il nome maclura le è stato attribuito in onore del geologo William Maclure; il sinonimo Toxilon sottindente una certa tossicità. È conosciuta anche come Osage orange (Arancio degli Osagi), dal nome della tribù indiana che risiedeva nella zona di crescita di questo albero, originario del Nord America ed introdotto in Italia, nel Lazio e in Toscana, nel 1827. Altro sinonimo della specie è aurantiaca, che sembra derivare proprio dalla forma particolare dell’infruttescenza simile ad una arancia, dal diametro dai 7 ai 15 cm, di colore variabile dal verde al giallognolo, e con la superficie profondamente corrugata, tanto da somigliare alla membrana esterna del cervello.
Anche le foglie, alterne, coriacee e acuminate, sono molto simili a quelle dell’albero dell’arancio. In realtà la maclura appartiene alla famiglia delle Moracee, come il gelso, con il quale presenta notevoli affinità, tanto che, in passato, in occasione di una malattia che colpì le piante di gelso, i bachi da seta furono alimentati con foglie della maclura, in sostituzione di quelle di gelso.
Rustica e ornamentale, la maclura è una pianta insolita ma facilmente riconoscibile, e in autunno, a partire dalla fine di ottobre, le sue infruttescenze, man mano che maturano, cominciano a cadere, una dopo l’altra, e con profondi tonfi squarciano il silenzio attirando l’attenzione dei passanti. A rendere inconfondibili tali infruttescenze è il fatto che si presentano molto grosse (possono superare anche 1 Kg di peso), globose, ricche di un latice simile a quello del fico, e per questo irritanti. Emanano un odore non molto gradevole e non risultano commestibili, sebbene pare che gli indiani d’America se ne cibassero previa cottura e anche per questo, forse, sono conosciute come “pomo degli Osagi”. Oggi i frutti vengono raccolti più che altro per curiosità e a scopo decorativo.
Il tronco è piuttosto irregolare e, come i rami, è provvisto di spine durissime e acuminate. Per la sua spinosità, e per via del portamento, a volte cespuglioso, la maclura è stata spesso impiegata anche per l’impianto di siepi invalicabili. La corteccia contiene tannino. Il legno è pesante, duro e resistente agli attrezzi da taglio e alle intemperie. È di un bel colore ocra ed è dotato di bellissime venature più scure, tanto che spesso viene utilizzato per creazioni artigianali pregiate e per la realizzazione di attrezzi durevoli.
La maclura è una pianta molto ricca di principi attivi, ma con conseguenti azioni più o meno tossiche, come già accennato. Nella pianta è presente anche un alcaloide in grado di controllare lo sviluppo di funghi patogeni, e questo spiegherebbe l’eccezionale resistenza del legno alla degradazione. Lo stesso composto, l’alcaloide, pare abbia una certa efficacia anche contro la candida, micete parassita dell’uomo (mughetto, candidiasi).
Nell’ultima guerra mondiale, dalla corteccia della maclura veniva estratta una sostanza color kaki, utilizzata per tingere le divise dei soldati americani. Ma già nei secoli precedenti, questa pianta aveva conosciuto usi militari: con il legno, particolarmente duro ed elastico, si costruivano gli archi, le tipiche armi da guerra degli indiani. Dalle radici, poi, si estrae un colorante naturale, la morina, di un bel giallo vivo, con il quale, sempre le tribù degli indiani Osagi si tingevano il volto prima di affrontare una battaglia. ☺
Chi, passando almeno una volta in questo periodo in via Roma, a Bonefro, presso il cosiddetto “casino” di don Filippo Baccari, oggi proprietà della famiglia Lalli, non ha notato, a terra, quei frutti misteriosi molto grossi e dalla forma strana? Sono esattamente le infruttescenze della Maclura pomifera o Toxilon pomiferum, una pianta chiamata maclura e nota tra noi bonefrani come’i palle don Bblippe, proprio per i suoi frutti. Il nome maclura le è stato attribuito in onore del geologo William Maclure; il sinonimo Toxilon sottindente una certa tossicità. È conosciuta anche come Osage orange (Arancio degli Osagi), dal nome della tribù indiana che risiedeva nella zona di crescita di questo albero, originario del Nord America ed introdotto in Italia, nel Lazio e in Toscana, nel 1827. Altro sinonimo della specie è aurantiaca, che sembra derivare proprio dalla forma particolare dell’infruttescenza simile ad una arancia, dal diametro dai 7 ai 15 cm, di colore variabile dal verde al giallognolo, e con la superficie profondamente corrugata, tanto da somigliare alla membrana esterna del cervello.
Anche le foglie, alterne, coriacee e acuminate, sono molto simili a quelle dell’albero dell’arancio. In realtà la maclura appartiene alla famiglia delle Moracee, come il gelso, con il quale presenta notevoli affinità, tanto che, in passato, in occasione di una malattia che colpì le piante di gelso, i bachi da seta furono alimentati con foglie della maclura, in sostituzione di quelle di gelso.
Rustica e ornamentale, la maclura è una pianta insolita ma facilmente riconoscibile, e in autunno, a partire dalla fine di ottobre, le sue infruttescenze, man mano che maturano, cominciano a cadere, una dopo l’altra, e con profondi tonfi squarciano il silenzio attirando l’attenzione dei passanti. A rendere inconfondibili tali infruttescenze è il fatto che si presentano molto grosse (possono superare anche 1 Kg di peso), globose, ricche di un latice simile a quello del fico, e per questo irritanti. Emanano un odore non molto gradevole e non risultano commestibili, sebbene pare che gli indiani d’America se ne cibassero previa cottura e anche per questo, forse, sono conosciute come “pomo degli Osagi”. Oggi i frutti vengono raccolti più che altro per curiosità e a scopo decorativo.
Il tronco è piuttosto irregolare e, come i rami, è provvisto di spine durissime e acuminate. Per la sua spinosità, e per via del portamento, a volte cespuglioso, la maclura è stata spesso impiegata anche per l’impianto di siepi invalicabili. La corteccia contiene tannino. Il legno è pesante, duro e resistente agli attrezzi da taglio e alle intemperie. È di un bel colore ocra ed è dotato di bellissime venature più scure, tanto che spesso viene utilizzato per creazioni artigianali pregiate e per la realizzazione di attrezzi durevoli.
La maclura è una pianta molto ricca di principi attivi, ma con conseguenti azioni più o meno tossiche, come già accennato. Nella pianta è presente anche un alcaloide in grado di controllare lo sviluppo di funghi patogeni, e questo spiegherebbe l’eccezionale resistenza del legno alla degradazione. Lo stesso composto, l’alcaloide, pare abbia una certa efficacia anche contro la candida, micete parassita dell’uomo (mughetto, candidiasi).
Nell’ultima guerra mondiale, dalla corteccia della maclura veniva estratta una sostanza color kaki, utilizzata per tingere le divise dei soldati americani. Ma già nei secoli precedenti, questa pianta aveva conosciuto usi militari: con il legno, particolarmente duro ed elastico, si costruivano gli archi, le tipiche armi da guerra degli indiani. Dalle radici, poi, si estrae un colorante naturale, la morina, di un bel giallo vivo, con il quale, sempre le tribù degli indiani Osagi si tingevano il volto prima di affrontare una battaglia. ☺
Chi, passando almeno una volta in questo periodo in via Roma, a Bonefro, presso il cosiddetto “casino” di don Filippo Baccari, oggi proprietà della famiglia Lalli, non ha notato, a terra, quei frutti misteriosi molto grossi e dalla forma strana?
Chi, passando almeno una volta in questo periodo in via Roma, a Bonefro, presso il cosiddetto “casino” di don Filippo Baccari, oggi proprietà della famiglia Lalli, non ha notato, a terra, quei frutti misteriosi molto grossi e dalla forma strana? Sono esattamente le infruttescenze della Maclura pomifera o Toxilon pomiferum, una pianta chiamata maclura e nota tra noi bonefrani come’i palle don Bblippe, proprio per i suoi frutti. Il nome maclura le è stato attribuito in onore del geologo William Maclure; il sinonimo Toxilon sottindente una certa tossicità. È conosciuta anche come Osage orange (Arancio degli Osagi), dal nome della tribù indiana che risiedeva nella zona di crescita di questo albero, originario del Nord America ed introdotto in Italia, nel Lazio e in Toscana, nel 1827. Altro sinonimo della specie è aurantiaca, che sembra derivare proprio dalla forma particolare dell’infruttescenza simile ad una arancia, dal diametro dai 7 ai 15 cm, di colore variabile dal verde al giallognolo, e con la superficie profondamente corrugata, tanto da somigliare alla membrana esterna del cervello.
Anche le foglie, alterne, coriacee e acuminate, sono molto simili a quelle dell’albero dell’arancio. In realtà la maclura appartiene alla famiglia delle Moracee, come il gelso, con il quale presenta notevoli affinità, tanto che, in passato, in occasione di una malattia che colpì le piante di gelso, i bachi da seta furono alimentati con foglie della maclura, in sostituzione di quelle di gelso.
Rustica e ornamentale, la maclura è una pianta insolita ma facilmente riconoscibile, e in autunno, a partire dalla fine di ottobre, le sue infruttescenze, man mano che maturano, cominciano a cadere, una dopo l’altra, e con profondi tonfi squarciano il silenzio attirando l’attenzione dei passanti. A rendere inconfondibili tali infruttescenze è il fatto che si presentano molto grosse (possono superare anche 1 Kg di peso), globose, ricche di un latice simile a quello del fico, e per questo irritanti. Emanano un odore non molto gradevole e non risultano commestibili, sebbene pare che gli indiani d’America se ne cibassero previa cottura e anche per questo, forse, sono conosciute come “pomo degli Osagi”. Oggi i frutti vengono raccolti più che altro per curiosità e a scopo decorativo.
Il tronco è piuttosto irregolare e, come i rami, è provvisto di spine durissime e acuminate. Per la sua spinosità, e per via del portamento, a volte cespuglioso, la maclura è stata spesso impiegata anche per l’impianto di siepi invalicabili. La corteccia contiene tannino. Il legno è pesante, duro e resistente agli attrezzi da taglio e alle intemperie. È di un bel colore ocra ed è dotato di bellissime venature più scure, tanto che spesso viene utilizzato per creazioni artigianali pregiate e per la realizzazione di attrezzi durevoli.
La maclura è una pianta molto ricca di principi attivi, ma con conseguenti azioni più o meno tossiche, come già accennato. Nella pianta è presente anche un alcaloide in grado di controllare lo sviluppo di funghi patogeni, e questo spiegherebbe l’eccezionale resistenza del legno alla degradazione. Lo stesso composto, l’alcaloide, pare abbia una certa efficacia anche contro la candida, micete parassita dell’uomo (mughetto, candidiasi).
Nell’ultima guerra mondiale, dalla corteccia della maclura veniva estratta una sostanza color kaki, utilizzata per tingere le divise dei soldati americani. Ma già nei secoli precedenti, questa pianta aveva conosciuto usi militari: con il legno, particolarmente duro ed elastico, si costruivano gli archi, le tipiche armi da guerra degli indiani. Dalle radici, poi, si estrae un colorante naturale, la morina, di un bel giallo vivo, con il quale, sempre le tribù degli indiani Osagi si tingevano il volto prima di affrontare una battaglia. ☺
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