È accaduto all’improvviso, venti giorni fa: chinandomi non ho avuto più il senso dell’equilibrio. In maniera violenta e convulsa ho perso l’esatto controllo del sopra e del sotto, della destra e della sinistra; il corpo era in acque ristagnate, limacciose / minacciose: dov’ero? Che facevo? E soprattutto chi ero? Non è stata una perdita d’identità: sapevo perfettamente rispondere a nome e cognome ecc., ma avrei potuto anche dire – sono una giraffa in fiamme alla finestra della casa, sono all’ultimo piano di una scala ducale – sono una cerva con testa di donna in fuga nel bosco. Tale il senso del limite della consapevolezza cognitiva o di quello che poteva essere il limite tra il fare e non fare, il bene e il male. Non so quanto tempo dopo sono arrivata ad accasciarmi sul letto, normalmente stravolta e consapevole di essere stata male. Il medico, venuto tempestivamente, dopo avermi visitato, mi ha detto che avevo vertigini, forse soggettive. Giorni di tortura, ma anche d’intemperante disordine mentale.
Leggo su Treccani alla voce Vertigine: “Con il termine vertigine (dal latino vertigo, “capogiro”, derivato di vertere, “volgere”) si intende una sensazione illusoria di rotazione dell’ambiente intorno a sé o, alternativamente, di se stessi rispetto all’ambiente: il primo tipo viene definito vertigine oggettiva, il secondo vertigine soggettiva. È importante sottolineare il carattere illusorio della sensazione vertiginosa, in quanto il soggetto affetto dal disturbo è comunque cosciente della discordanza della sua sensazione rispetto alla realtà…”.
Ma tutto questo non è parte importante del mio stato di essere: ora, forse sempre?
Pensare. Devo pensare a quello che sento, che annuso, che mi si accumula nella mente mentre sto ad occhi chiusi, perché la luce non mi ferisca. Il primo è un leggero senso di nausea, mi viene in mente A Perfect World di Clint Eastwood. Il fittizio non è mai nelle cose ma nell’impossibile verosimiglianza di ciò che avviene e nel nascondere l’evidenza, mostrandola. La finzione, come avverte Foucault, consiste proprio non nel far vedere l’invisibile ma nel far vedere com’è invisibile l’invisibilità del visibile. In A perfect World la ‘delusione permanente’ per un mondo che di perfetto ha solo il nome, è esemplificato dall’apparenza di un paesaggio tranquillo dove la gentilezza e il sorriso nascondono profondi rancori e l’ordine pubblico, violenza e incomprensioni. Un’America perbene dove le convenzioni, il benessere piccolo-borghese e l’ordine tengono come alienati in tante gabbie i cittadini.
È una vertigine assoluta se pensiamo al male che in questi giorni ci buttiamo addosso: ai je suis charlie, je suis, je suis anche le due ragazze per fortuna tornate salve e colpite da valanghe di insulti da moltissimi italiani anche politici, je suis i morti in Nigeria ma soprattutto bambini con la pistola, i bambini-bomba, i bambini decapitati perché hanno visto una partita, i bambini di strada che benvestiti offrono fiori a papa Francesco, piangendo irrimediabilmente sulla loro infanzia perduta e ai quali il pianto di Cristo non porterà mai conforto. Vertigine assoluta, il male quando è crudeltà è guerra e discriminatamente ci fa percorrere corridoi dell’abietto.
Annuso quasi questo mio stato all’incontrario, nel romanzo di Evgenija Ginzburg, Viaggio nella vertigine, del 2011, un documento insostituibile per chi voglia avvicinarsi alla tragedia delle purghe staliniane e del Gulag e, nel contempo, un capolavoro letterario. Celebre è la scena della lettura a memoria di gran parte dell’Evgenij Onegin che la Ginzburg sostiene in un affollato carro merci del treno che la sta portando alla Kolyma per dimostrare ai carcerieri della scorta e al loro capo Solovej che nessuna delle detenute cela con sé un libro (cosa vietata dal regolamento) e nel contempo che nessuno può imprigionare il pensiero, la memoria, l’arte. Nota quasi con stupore la Ginzburg: “Sì, proprio qui in prigionia ho incontrato il sentimento del con-gioire, molto più raro e difficile del com-patire…”. La lettura del Viaggio nella vertigine provoca proprio questa sensazione di gioia stupita e primigenia.
La medesima vertigine, all’ opposto, mi aveva provocato una mostra a Torino, l’Impero del male, a cura di Vittorio Sgarbi che aveva unito, contaminato nel vero senso del termine quadri, spezzoni di film, secoli, autori, per proporci la banalità del male e la sua rappresentazione
Un delirio di apocalittiche visioni, un tuffo al cuore, un assalto di brutture e malvagità, di nefandezze che hanno contaminato l’umanità nella sua boriosa storia, raccontate con il vezzo della metafora, dell’allegoria, del simbolo evocativo, o spudoratamente scaraventate in tutto il loro caustico realismo.
Insomma, un repertorio quanto mai vasto di generi e linguaggi, tecniche e stili per stigmatizzare crudeltà fameliche e incubi, perversità e cattiveria, dove l’eterna lotta tra il Bene e il Male perde il suo valore dialettico e la speranza del lieto fine. Il Male è senza redenzione. Conclude la mostra, tra gli altri, la pittrice inglese Jenny Saville, discepola di Lucien Freud, che in Fulcrum, comprime monumentali corpi, prevalentemente femminili, ignudi, come in una tortura, e mortificati nella loro carne flaccida. Una premonizione delle torture sui prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib. Dice in un’intervista: “Dove voi vedete una ferita io vedo la materia, vedo il colore… quello che mi interessa è la patologia della pittura, la capacità di trasformare ciò che è comunemente ritenuto vertigine”.
Vertigo oh vertigo!
Mi manca solo la mascherina per l’asma che indossa l’inquieto attore di David Linch in Velluto blu per sentirmi in mezzo al peggiore degli incubi o nelle più attuali delle realtà possibili di questo universo o multiverso che sto vivendo.
Bluemonday! (Il giorno più triste dell’anno). Adda passà a nuttata!☺
È accaduto all’improvviso, venti giorni fa: chinandomi non ho avuto più il senso dell’equilibrio. In maniera violenta e convulsa ho perso l’esatto controllo del sopra e del sotto, della destra e della sinistra; il corpo era in acque ristagnate, limacciose / minacciose: dov’ero? Che facevo? E soprattutto chi ero? Non è stata una perdita d’identità: sapevo perfettamente rispondere a nome e cognome ecc., ma avrei potuto anche dire – sono una giraffa in fiamme alla finestra della casa, sono all’ultimo piano di una scala ducale – sono una cerva con testa di donna in fuga nel bosco. Tale il senso del limite della consapevolezza cognitiva o di quello che poteva essere il limite tra il fare e non fare, il bene e il male. Non so quanto tempo dopo sono arrivata ad accasciarmi sul letto, normalmente stravolta e consapevole di essere stata male. Il medico, venuto tempestivamente, dopo avermi visitato, mi ha detto che avevo vertigini, forse soggettive. Giorni di tortura, ma anche d’intemperante disordine mentale.
Leggo su Treccani alla voce Vertigine: “Con il termine vertigine (dal latino vertigo, “capogiro”, derivato di vertere, “volgere”) si intende una sensazione illusoria di rotazione dell’ambiente intorno a sé o, alternativamente, di se stessi rispetto all’ambiente: il primo tipo viene definito vertigine oggettiva, il secondo vertigine soggettiva. È importante sottolineare il carattere illusorio della sensazione vertiginosa, in quanto il soggetto affetto dal disturbo è comunque cosciente della discordanza della sua sensazione rispetto alla realtà…”.
Ma tutto questo non è parte importante del mio stato di essere: ora, forse sempre?
Pensare. Devo pensare a quello che sento, che annuso, che mi si accumula nella mente mentre sto ad occhi chiusi, perché la luce non mi ferisca. Il primo è un leggero senso di nausea, mi viene in mente A Perfect World di Clint Eastwood. Il fittizio non è mai nelle cose ma nell’impossibile verosimiglianza di ciò che avviene e nel nascondere l’evidenza, mostrandola. La finzione, come avverte Foucault, consiste proprio non nel far vedere l’invisibile ma nel far vedere com’è invisibile l’invisibilità del visibile. In A perfect World la ‘delusione permanente’ per un mondo che di perfetto ha solo il nome, è esemplificato dall’apparenza di un paesaggio tranquillo dove la gentilezza e il sorriso nascondono profondi rancori e l’ordine pubblico, violenza e incomprensioni. Un’America perbene dove le convenzioni, il benessere piccolo-borghese e l’ordine tengono come alienati in tante gabbie i cittadini.
È una vertigine assoluta se pensiamo al male che in questi giorni ci buttiamo addosso: ai je suis charlie, je suis, je suis anche le due ragazze per fortuna tornate salve e colpite da valanghe di insulti da moltissimi italiani anche politici, je suis i morti in Nigeria ma soprattutto bambini con la pistola, i bambini-bomba, i bambini decapitati perché hanno visto una partita, i bambini di strada che benvestiti offrono fiori a papa Francesco, piangendo irrimediabilmente sulla loro infanzia perduta e ai quali il pianto di Cristo non porterà mai conforto. Vertigine assoluta, il male quando è crudeltà è guerra e discriminatamente ci fa percorrere corridoi dell’abietto.
Annuso quasi questo mio stato all’incontrario, nel romanzo di Evgenija Ginzburg, Viaggio nella vertigine, del 2011, un documento insostituibile per chi voglia avvicinarsi alla tragedia delle purghe staliniane e del Gulag e, nel contempo, un capolavoro letterario. Celebre è la scena della lettura a memoria di gran parte dell’Evgenij Onegin che la Ginzburg sostiene in un affollato carro merci del treno che la sta portando alla Kolyma per dimostrare ai carcerieri della scorta e al loro capo Solovej che nessuna delle detenute cela con sé un libro (cosa vietata dal regolamento) e nel contempo che nessuno può imprigionare il pensiero, la memoria, l’arte. Nota quasi con stupore la Ginzburg: “Sì, proprio qui in prigionia ho incontrato il sentimento del con-gioire, molto più raro e difficile del com-patire…”. La lettura del Viaggio nella vertigine provoca proprio questa sensazione di gioia stupita e primigenia.
La medesima vertigine, all’ opposto, mi aveva provocato una mostra a Torino, l’Impero del male, a cura di Vittorio Sgarbi che aveva unito, contaminato nel vero senso del termine quadri, spezzoni di film, secoli, autori, per proporci la banalità del male e la sua rappresentazione
Un delirio di apocalittiche visioni, un tuffo al cuore, un assalto di brutture e malvagità, di nefandezze che hanno contaminato l’umanità nella sua boriosa storia, raccontate con il vezzo della metafora, dell’allegoria, del simbolo evocativo, o spudoratamente scaraventate in tutto il loro caustico realismo.
Insomma, un repertorio quanto mai vasto di generi e linguaggi, tecniche e stili per stigmatizzare crudeltà fameliche e incubi, perversità e cattiveria, dove l’eterna lotta tra il Bene e il Male perde il suo valore dialettico e la speranza del lieto fine. Il Male è senza redenzione. Conclude la mostra, tra gli altri, la pittrice inglese Jenny Saville, discepola di Lucien Freud, che in Fulcrum, comprime monumentali corpi, prevalentemente femminili, ignudi, come in una tortura, e mortificati nella loro carne flaccida. Una premonizione delle torture sui prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib. Dice in un’intervista: “Dove voi vedete una ferita io vedo la materia, vedo il colore… quello che mi interessa è la patologia della pittura, la capacità di trasformare ciò che è comunemente ritenuto vertigine”.
Vertigo oh vertigo!
Mi manca solo la mascherina per l’asma che indossa l’inquieto attore di David Linch in Velluto blu per sentirmi in mezzo al peggiore degli incubi o nelle più attuali delle realtà possibili di questo universo o multiverso che sto vivendo.
Bluemonday! (Il giorno più triste dell’anno). Adda passà a nuttata!☺
È accaduto all’improvviso, venti giorni fa: chinandomi non ho avuto più il senso dell’equilibrio. In maniera violenta e convulsa ho perso l’esatto controllo del sopra e del sotto, della destra e della sinistra; il corpo era in acque ristagnate, limacciose / minacciose: dov'ero? Che facevo? E soprattutto chi ero?
È accaduto all’improvviso, venti giorni fa: chinandomi non ho avuto più il senso dell’equilibrio. In maniera violenta e convulsa ho perso l’esatto controllo del sopra e del sotto, della destra e della sinistra; il corpo era in acque ristagnate, limacciose / minacciose: dov’ero? Che facevo? E soprattutto chi ero? Non è stata una perdita d’identità: sapevo perfettamente rispondere a nome e cognome ecc., ma avrei potuto anche dire – sono una giraffa in fiamme alla finestra della casa, sono all’ultimo piano di una scala ducale – sono una cerva con testa di donna in fuga nel bosco. Tale il senso del limite della consapevolezza cognitiva o di quello che poteva essere il limite tra il fare e non fare, il bene e il male. Non so quanto tempo dopo sono arrivata ad accasciarmi sul letto, normalmente stravolta e consapevole di essere stata male. Il medico, venuto tempestivamente, dopo avermi visitato, mi ha detto che avevo vertigini, forse soggettive. Giorni di tortura, ma anche d’intemperante disordine mentale.
Leggo su Treccani alla voce Vertigine: “Con il termine vertigine (dal latino vertigo, “capogiro”, derivato di vertere, “volgere”) si intende una sensazione illusoria di rotazione dell’ambiente intorno a sé o, alternativamente, di se stessi rispetto all’ambiente: il primo tipo viene definito vertigine oggettiva, il secondo vertigine soggettiva. È importante sottolineare il carattere illusorio della sensazione vertiginosa, in quanto il soggetto affetto dal disturbo è comunque cosciente della discordanza della sua sensazione rispetto alla realtà…”.
Ma tutto questo non è parte importante del mio stato di essere: ora, forse sempre?
Pensare. Devo pensare a quello che sento, che annuso, che mi si accumula nella mente mentre sto ad occhi chiusi, perché la luce non mi ferisca. Il primo è un leggero senso di nausea, mi viene in mente A Perfect World di Clint Eastwood. Il fittizio non è mai nelle cose ma nell’impossibile verosimiglianza di ciò che avviene e nel nascondere l’evidenza, mostrandola. La finzione, come avverte Foucault, consiste proprio non nel far vedere l’invisibile ma nel far vedere com’è invisibile l’invisibilità del visibile. In A perfect World la ‘delusione permanente’ per un mondo che di perfetto ha solo il nome, è esemplificato dall’apparenza di un paesaggio tranquillo dove la gentilezza e il sorriso nascondono profondi rancori e l’ordine pubblico, violenza e incomprensioni. Un’America perbene dove le convenzioni, il benessere piccolo-borghese e l’ordine tengono come alienati in tante gabbie i cittadini.
È una vertigine assoluta se pensiamo al male che in questi giorni ci buttiamo addosso: ai je suis charlie, je suis, je suis anche le due ragazze per fortuna tornate salve e colpite da valanghe di insulti da moltissimi italiani anche politici, je suis i morti in Nigeria ma soprattutto bambini con la pistola, i bambini-bomba, i bambini decapitati perché hanno visto una partita, i bambini di strada che benvestiti offrono fiori a papa Francesco, piangendo irrimediabilmente sulla loro infanzia perduta e ai quali il pianto di Cristo non porterà mai conforto. Vertigine assoluta, il male quando è crudeltà è guerra e discriminatamente ci fa percorrere corridoi dell’abietto.
Annuso quasi questo mio stato all’incontrario, nel romanzo di Evgenija Ginzburg, Viaggio nella vertigine, del 2011, un documento insostituibile per chi voglia avvicinarsi alla tragedia delle purghe staliniane e del Gulag e, nel contempo, un capolavoro letterario. Celebre è la scena della lettura a memoria di gran parte dell’Evgenij Onegin che la Ginzburg sostiene in un affollato carro merci del treno che la sta portando alla Kolyma per dimostrare ai carcerieri della scorta e al loro capo Solovej che nessuna delle detenute cela con sé un libro (cosa vietata dal regolamento) e nel contempo che nessuno può imprigionare il pensiero, la memoria, l’arte. Nota quasi con stupore la Ginzburg: “Sì, proprio qui in prigionia ho incontrato il sentimento del con-gioire, molto più raro e difficile del com-patire…”. La lettura del Viaggio nella vertigine provoca proprio questa sensazione di gioia stupita e primigenia.
La medesima vertigine, all’ opposto, mi aveva provocato una mostra a Torino, l’Impero del male, a cura di Vittorio Sgarbi che aveva unito, contaminato nel vero senso del termine quadri, spezzoni di film, secoli, autori, per proporci la banalità del male e la sua rappresentazione
Un delirio di apocalittiche visioni, un tuffo al cuore, un assalto di brutture e malvagità, di nefandezze che hanno contaminato l’umanità nella sua boriosa storia, raccontate con il vezzo della metafora, dell’allegoria, del simbolo evocativo, o spudoratamente scaraventate in tutto il loro caustico realismo.
Insomma, un repertorio quanto mai vasto di generi e linguaggi, tecniche e stili per stigmatizzare crudeltà fameliche e incubi, perversità e cattiveria, dove l’eterna lotta tra il Bene e il Male perde il suo valore dialettico e la speranza del lieto fine. Il Male è senza redenzione. Conclude la mostra, tra gli altri, la pittrice inglese Jenny Saville, discepola di Lucien Freud, che in Fulcrum, comprime monumentali corpi, prevalentemente femminili, ignudi, come in una tortura, e mortificati nella loro carne flaccida. Una premonizione delle torture sui prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib. Dice in un’intervista: “Dove voi vedete una ferita io vedo la materia, vedo il colore… quello che mi interessa è la patologia della pittura, la capacità di trasformare ciò che è comunemente ritenuto vertigine”.
Vertigo oh vertigo!
Mi manca solo la mascherina per l’asma che indossa l’inquieto attore di David Linch in Velluto blu per sentirmi in mezzo al peggiore degli incubi o nelle più attuali delle realtà possibili di questo universo o multiverso che sto vivendo.
Bluemonday! (Il giorno più triste dell’anno). Adda passà a nuttata!☺
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