
Deargirl: amelia rosselli *
Le preziose: con questo titolo apro articoli che parlano di donne di ieri, l’altro ieri, oggi che, come le preziose del settecento hanno agito o vissuto per lasciare il testimone alle altre.
Ti ho amata appena ti ho conosciuta: mi sei apparsa alta, camicetta e viso da bambina, gli occhi larghi celesti, che indicavano soprattutto Innocenza. Non l’innocenza-ingenuità, ma l’innocenza di chi, dopo aver attraversato tutto il male, ha saputo confermare l’innocenza-purezza nel parlare e nel rivolgersi al mondo. Per questo scrivere di temi è difficile. Ma voglio finire questa galleria di donne proprio con te, che sembri la più debole, la più sconfitta, la più provata. Ed invece sei quella che ha dato e offerto alla vita, sempre più.
Amelia detta Melina, figlia di Carlo Rosselli e Marion Catherine Cave, nasce in esilio a Parigi il 28 marzo 1930. Qualche anno dopo, suo padre Carlo, socialista, antifascista e fondatore di Giustizia e Libertà, sarà assassinato insieme al fratello Nello dai cougards fascisti, sicari agli ordini di Mussolini e Ciano, a Bagnoles de l’Orne il 9 giugno 1937.
Il profondo trauma per la prematura perdita del padre accompagnerà Amelia per tutta la vita. Sua madre Marion, inglese di salute cagionevole, non si riprese mai totalmente dalla morte del marito. Fu lei che convocò i figli nella propria stanza, chiedendo loro se sapessero cosa vorrebbe dire la parola assassinio. I due bambini risposero di sì, per poi tornare nella propria stanza in vestaglietta da notte. Prima fuggirono in Svizzera poi in Inghilterra successivamente alla volta dell’ America, affrontando una traversata in mare lunga e pericolosa.
Nel giugno 1948 Melina torna in Italia, l’anno seguente subisce la perdita della madre: fu il suo primo “vero dolore adulto” così profondo che le impedì per due o tre anni di parlare. Amelia si sente in qualche modo responsabile della morte. “Per un lungo periodo non aprii bocca, caddi in un mutismo apparentemente inspiegabile. Quella morte fu dolorosissima, persi addirittura la memoria”.
La nonna Amelia Pincherle Rosselli, di famiglia ebraico-veneziana, zia di Alberto Moravia, donna colta, autrice di testi teatrali, si preoccupa sempre per quella sua nipote così fragile ed esposta al mondo. È infatti il 1950 quando Amelia si trasferisce a Roma per lavorare alle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti. Scrive: “Traducevo in inglese gli opuscoli di Comunità (all’ inizio mi parevano insensati, oggi, invece ripensandoci…) credo che anche l’ambiente formi lo scrittore. Conobbi Rocco Scotellaro, Bobi Bazlen, Pasolini…”.
L’incontro con Scotellaro si dimostra decisivo per la sua vita, personale e poetica: “Attraverso di lui ho scoperto i poeti italiani e ho imparato a scrivere versi in italiano”. Amelia non è più sola a Roma ed entra a contatto con l’ambiente intellettuale (musica- le, pittorico, ma anche letterario) che negli anni Cinquanta era vivissimo nella capitale.
Il 15 dicembre 1953 muore di infarto, giovanissimo, Scotellaro. Di nuovo annientamento, silenzi: ma anche la molla che la spinge a scrivere solo in italiano come, anni dopo, nel 1987, Amelia dichiara in un’intervista: “Quando è morto, qualcosa è successo e dopo i funerali mi sono chiusa in casa per quindici giorni e ho cominciato a scrivere in italiano: non ho mai capito perché, ma forse lo so anche: era morto”.
Una lingua italiana che Amelia Rosselli riformulò con un colpo di penna, secoli e secoli di tradizione mutarono in quel momento per una scelta di vita capitale. Da bambina Amelia Rosselli ha percepito perfettamente il problema del padre e dello zio spiati, inseguiti, avvisati e sempre in pericolo, silenziosamente o apertamente minacciati, continuamente terrorizzati fino al loro assassinio. Le intuizioni e la percezione di una minaccia che è stata reale s’incarnano in lei come un trauma che è altrettanto reale per milioni di persone a quel tempo; pensiamo a cosa è stata la CIA negli anni Settanta, e ancora prima il maccartismo per il mondo culturale americano o pensiamo alla schedatura e al sistema di controllo del KGB sovietico, il SID in Italia, le stragi di stato ecc. Come una pestilenza, la sua malattia in realtà è anche il contagio della storia. Ha assunto su di sé il trauma di un’intera epoca: la sua non è una malattia psichica avulsa dal contesto storico: sembra vivere in modo traumatico quello che stava succedendo in mezzo mondo. Quando lei risponde a Pasolini di non essere una cosmopolita, ma un’esule, una fuggiasca, sta dicendo anche di non sentirsi a casa, ma perseguitata e minacciata o attraverso avvelenamento di cibo o scariche elettriche dei fili della luce o incidenti in motorino mentre percorre le strade di Roma, o l’“uso del radar sulla testa”, le minacce in stile mafioso, l’oppio fra i medicinali, come abbiamo letto in Storia di una malattia, tutto attribuito a un disegno politico, a tentati omicidi. La sua non è una malattia romantica, ma una malattia del Novecento: un turbamento psichico che attraversa la sua letteratura e che è la cristallizzazione nella psiche dei mali della storia.
Accecante fu la luce dei suoi libri: in successione furono pubblicati Variazioni Belliche (1964), Serie Ospedaliera (1969), Documento (1976), Impromptu (1981), La libellula (1985), Sonno-Sleep (1953-1966, ma apparso nel 1989).
Fece parte anche del Gruppo 1963, Amelia, che non poteva accontentarsi; doveva trovare la via, “doveva far incontrare una volta per tutte sulla pagina musica, parola e struttura dell’universo”. In tal senso il suo saggetto Spazi metrici fu un capolavoro. Dopo il primo, il secondo, il terzo elettro-shock, i ricoveri, si ammala di Parkinson, crede che la CIA la spii ancora per il coraggio che ebbe suo padre Carlo. Ma il problema non fu la malattia, la pazzia, la mancanza cronica di denaro, i sacrifici, no. La tragedia fu l’innocenza e, quando tutto fu consumato “dall’ astuzia del mondo”, Amelia smise di scrivere.
“Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo: quando sai come è fatto forse non hai più bisogno di scrivere”, afferma Amelia in una intervista.
Morì l’11 febbraio del 1996, a sessantasei anni, gettandosi dal balcone della mansarda di via del Corallo. La targa è dirimpetto a una trattoria, nel punto in cui ogni sera si raccoglie una fila di avventori in attesa di un tavolo – turisti distratti e fracassoni -. Davanti a quella lapide risuona la chiusa de I fiori vengono in dono: “Il mondo è sottile e piano: / pochi elefanti vi girano, ottusi”.☺
*titolo di una poesia. Loredana Alberti in Dafne o del guadagno – antologia – Beatrix v.t ed.2006