Se c’è una dote che da sempre appartiene al genere umano, essa è senza dubbio la curiosità, l’atteggiamento cioè di chi osserva la realtà che lo circonda e si fa possedere da quel desiderio quasi irrefrenabile che spinge a conoscere e a domandarsi il perché di ciò che accade, la voglia mai sopita di “sapere” in modo particolareggiato, quell’impulso che da sempre accompagna l’esperienza umana e senza il quale non ci sarebbe stata evoluzione.
Esiste tuttavia un aspetto, una degenerazione del fenomeno, che di certo non costituisce un valido presupposto per la civile convivenza: è il pettegolezzo. Bandito dai più perché fondato sulla negazione di rapporti sociali profondi, il pettegolezzo o gossip, come per vezzo si preferisce chiamarlo, ha sempre caratterizzato la vita di relazione. Al giorno d’oggi però parlare dell’altro, e soprattutto parlarne male, è pratica diffusa, riconosciuta e valorizzata dai media. Stampa, televisione, rete telematica riservano ampi spazi all’anglofono gossip, un nome straniero per indicare appunto le chiacchiere di portineria, i discorsi da bar, le confidenze “benevole” tra vicine di casa, le frivole conversazioni delle signore dal parrucchiere. Come proliferano quotidiani e riviste che ospitano seguitissime rubriche, così si inventano intere trasmissioni televisive dove il gossip regna incontrastato. Il termine inglese ha la duplice accezione di sostantivo e di verbo. In funzione di sostantivo assume il duplice significato di “conversazione su argomenti leggeri”, in particolare sulla vita altrui, e di “persona” che riconosce come suo esclusivo ambito mentale il parlar male di altri. In funzione verbale “gossip” traduce l’azione di parlare di argomenti non importanti.
Sul versante opposto ci porta il termine “privacy” (pronuncia britannica privasi, pronuncia americana praivasi). Con questa parola gli Inglesi intendono: libertà di agire senza che altre persone guardino o sappiano cosa l’altro sta facendo. Il termine, di origine latina, è entrato a pieno titolo nel linguaggio quotidiano. Mai ci sogneremmo di usare espressioni come “rispetto della privatezza” o “diritto alla intimità” per indicare tutte le norme che la nostra Costituzione prevede a tutela delle garanzie di libertà nella vita privata di ognuno. Il termine inglese ci viene in soccorso proprio perché le riassume tutte.
Viviamo purtroppo in una società che ha perso di vista l’essenziale e si occupa esclusivamente del vacuo, una società “impicciona” che non esita a ricorrere a mezzi tecnologici ultrasofisticati, e che pone la tutela della privacy in serio pericolo. Intercettazioni, superficialità nel trattamento dei dati personali, faciloneria nel diffondere notizie riservate sono chiare violazioni di quello che solo sulla carta è un diritto universalmente riconosciuto. Sono sempre meno, però, coloro che se ne rendono conto e si impegnano per farlo rispettare. Così qualche mese fa su La Repubblica Stefano Rodotà, in passato Garante della privacy: “Che cosa diventa il diritto di costruire liberamente la propria personalità quando preferenze, inclinazioni, rapporti personali o sociali vengono implacabilmente scrutati? Che cosa diventa la libertà di circolazione quando videosorveglianza e localizzazione attraverso i telefoni mobili si trasformano in un guinzaglio elettronico che permette di seguire e registrare ogni nostro spostamento? Che cosa diventa la libertà di comunicare quando si registrano e si conservano per anni, peraltro in condizioni di precaria sicurezza, tutti i dati di traffico relativi a telefonate, posta elettronica, accessi ad Internet? Che cosa diventa il diritto alla salute quando la giusta logica dell’accertamento fiscale si trasforma nella pretesa di frugare in ogni aspetto intimo e doloroso dell’esistenza?… E dove può, in definitiva, rifugiarsi la dignità della persona quando si viene esposti non solo allo sguardo di una platea avida d’ogni pettegolezzo, ma all’occhio di sconosciuti controllori?”. ☺
Se c’è una dote che da sempre appartiene al genere umano, essa è senza dubbio la curiosità, l’atteggiamento cioè di chi osserva la realtà che lo circonda e si fa possedere da quel desiderio quasi irrefrenabile che spinge a conoscere e a domandarsi il perché di ciò che accade, la voglia mai sopita di “sapere” in modo particolareggiato, quell’impulso che da sempre accompagna l’esperienza umana e senza il quale non ci sarebbe stata evoluzione.
Esiste tuttavia un aspetto, una degenerazione del fenomeno, che di certo non costituisce un valido presupposto per la civile convivenza: è il pettegolezzo. Bandito dai più perché fondato sulla negazione di rapporti sociali profondi, il pettegolezzo o gossip, come per vezzo si preferisce chiamarlo, ha sempre caratterizzato la vita di relazione. Al giorno d’oggi però parlare dell’altro, e soprattutto parlarne male, è pratica diffusa, riconosciuta e valorizzata dai media. Stampa, televisione, rete telematica riservano ampi spazi all’anglofono gossip, un nome straniero per indicare appunto le chiacchiere di portineria, i discorsi da bar, le confidenze “benevole” tra vicine di casa, le frivole conversazioni delle signore dal parrucchiere. Come proliferano quotidiani e riviste che ospitano seguitissime rubriche, così si inventano intere trasmissioni televisive dove il gossip regna incontrastato. Il termine inglese ha la duplice accezione di sostantivo e di verbo. In funzione di sostantivo assume il duplice significato di “conversazione su argomenti leggeri”, in particolare sulla vita altrui, e di “persona” che riconosce come suo esclusivo ambito mentale il parlar male di altri. In funzione verbale “gossip” traduce l’azione di parlare di argomenti non importanti.
Sul versante opposto ci porta il termine “privacy” (pronuncia britannica privasi, pronuncia americana praivasi). Con questa parola gli Inglesi intendono: libertà di agire senza che altre persone guardino o sappiano cosa l’altro sta facendo. Il termine, di origine latina, è entrato a pieno titolo nel linguaggio quotidiano. Mai ci sogneremmo di usare espressioni come “rispetto della privatezza” o “diritto alla intimità” per indicare tutte le norme che la nostra Costituzione prevede a tutela delle garanzie di libertà nella vita privata di ognuno. Il termine inglese ci viene in soccorso proprio perché le riassume tutte.
Viviamo purtroppo in una società che ha perso di vista l’essenziale e si occupa esclusivamente del vacuo, una società “impicciona” che non esita a ricorrere a mezzi tecnologici ultrasofisticati, e che pone la tutela della privacy in serio pericolo. Intercettazioni, superficialità nel trattamento dei dati personali, faciloneria nel diffondere notizie riservate sono chiare violazioni di quello che solo sulla carta è un diritto universalmente riconosciuto. Sono sempre meno, però, coloro che se ne rendono conto e si impegnano per farlo rispettare. Così qualche mese fa su La Repubblica Stefano Rodotà, in passato Garante della privacy: “Che cosa diventa il diritto di costruire liberamente la propria personalità quando preferenze, inclinazioni, rapporti personali o sociali vengono implacabilmente scrutati? Che cosa diventa la libertà di circolazione quando videosorveglianza e localizzazione attraverso i telefoni mobili si trasformano in un guinzaglio elettronico che permette di seguire e registrare ogni nostro spostamento? Che cosa diventa la libertà di comunicare quando si registrano e si conservano per anni, peraltro in condizioni di precaria sicurezza, tutti i dati di traffico relativi a telefonate, posta elettronica, accessi ad Internet? Che cosa diventa il diritto alla salute quando la giusta logica dell’accertamento fiscale si trasforma nella pretesa di frugare in ogni aspetto intimo e doloroso dell’esistenza?… E dove può, in definitiva, rifugiarsi la dignità della persona quando si viene esposti non solo allo sguardo di una platea avida d’ogni pettegolezzo, ma all’occhio di sconosciuti controllori?”. ☺
Se c’è una dote che da sempre appartiene al genere umano, essa è senza dubbio la curiosità, l’atteggiamento cioè di chi osserva la realtà che lo circonda e si fa possedere da quel desiderio quasi irrefrenabile che spinge a conoscere e a domandarsi il perché di ciò che accade, la voglia mai sopita di “sapere” in modo particolareggiato, quell’impulso che da sempre accompagna l’esperienza umana e senza il quale non ci sarebbe stata evoluzione.
Esiste tuttavia un aspetto, una degenerazione del fenomeno, che di certo non costituisce un valido presupposto per la civile convivenza: è il pettegolezzo. Bandito dai più perché fondato sulla negazione di rapporti sociali profondi, il pettegolezzo o gossip, come per vezzo si preferisce chiamarlo, ha sempre caratterizzato la vita di relazione. Al giorno d’oggi però parlare dell’altro, e soprattutto parlarne male, è pratica diffusa, riconosciuta e valorizzata dai media. Stampa, televisione, rete telematica riservano ampi spazi all’anglofono gossip, un nome straniero per indicare appunto le chiacchiere di portineria, i discorsi da bar, le confidenze “benevole” tra vicine di casa, le frivole conversazioni delle signore dal parrucchiere. Come proliferano quotidiani e riviste che ospitano seguitissime rubriche, così si inventano intere trasmissioni televisive dove il gossip regna incontrastato. Il termine inglese ha la duplice accezione di sostantivo e di verbo. In funzione di sostantivo assume il duplice significato di “conversazione su argomenti leggeri”, in particolare sulla vita altrui, e di “persona” che riconosce come suo esclusivo ambito mentale il parlar male di altri. In funzione verbale “gossip” traduce l’azione di parlare di argomenti non importanti.
Sul versante opposto ci porta il termine “privacy” (pronuncia britannica privasi, pronuncia americana praivasi). Con questa parola gli Inglesi intendono: libertà di agire senza che altre persone guardino o sappiano cosa l’altro sta facendo. Il termine, di origine latina, è entrato a pieno titolo nel linguaggio quotidiano. Mai ci sogneremmo di usare espressioni come “rispetto della privatezza” o “diritto alla intimità” per indicare tutte le norme che la nostra Costituzione prevede a tutela delle garanzie di libertà nella vita privata di ognuno. Il termine inglese ci viene in soccorso proprio perché le riassume tutte.
Viviamo purtroppo in una società che ha perso di vista l’essenziale e si occupa esclusivamente del vacuo, una società “impicciona” che non esita a ricorrere a mezzi tecnologici ultrasofisticati, e che pone la tutela della privacy in serio pericolo. Intercettazioni, superficialità nel trattamento dei dati personali, faciloneria nel diffondere notizie riservate sono chiare violazioni di quello che solo sulla carta è un diritto universalmente riconosciuto. Sono sempre meno, però, coloro che se ne rendono conto e si impegnano per farlo rispettare. Così qualche mese fa su La Repubblica Stefano Rodotà, in passato Garante della privacy: “Che cosa diventa il diritto di costruire liberamente la propria personalità quando preferenze, inclinazioni, rapporti personali o sociali vengono implacabilmente scrutati? Che cosa diventa la libertà di circolazione quando videosorveglianza e localizzazione attraverso i telefoni mobili si trasformano in un guinzaglio elettronico che permette di seguire e registrare ogni nostro spostamento? Che cosa diventa la libertà di comunicare quando si registrano e si conservano per anni, peraltro in condizioni di precaria sicurezza, tutti i dati di traffico relativi a telefonate, posta elettronica, accessi ad Internet? Che cosa diventa il diritto alla salute quando la giusta logica dell’accertamento fiscale si trasforma nella pretesa di frugare in ogni aspetto intimo e doloroso dell’esistenza?… E dove può, in definitiva, rifugiarsi la dignità della persona quando si viene esposti non solo allo sguardo di una platea avida d’ogni pettegolezzo, ma all’occhio di sconosciuti controllori?”. ☺
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