Casacalenda: comunità terapeutica
6 Gennaio 2015 Share

Casacalenda: comunità terapeutica

Intervista ad un ospite della Comunità “il Casone”, ex detenuto OPG

Quanto è durata la tua permanenza in OPG?

Circa 6 mesi.

L’esperienza più brutta in OPG?

La reclusione, il recinto, la mancanza di libertà. Ho avuto paura degli altri detenuti, non mi fidavo.

Che attività svolgevi?

Pulivo le camere di tutti.

Quanti detenuti occupavano la camera?

Sei in pochi metri quadri; non riuscivo a dormire, avevo paura di prendere sonno. Per questo chiedevo i farmaci al medico. Nella camera dove dormivo un detenuto si era tolto la vita impiccandosi.

Quali sono le differenze tra l’OPG e la CT?

La CT è più tranquilla, c’è più libertà, attività che mi permettono di creare rapporti con gli abitanti di Casacalenda.

 

CT e OPG:

reclusione, cura, custodia, terapia

La comunità terapeutica si trova in questi ultimi mesi al centro delle dinamiche di trasformazione ed abolizione dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario; molti dei pazienti detenuti in tali strutture sono oggetto di politiche di rientro nei territori di riferimento, e la Comunità Terapeutica diviene il terminale privilegiato in un quadro del genere.

Da una parte la prospettiva della definitiva chiusura degli OPG, dall’altra la traduzione di molte pene detentive in percorsi di cura dei soggetti interessati, definiscono le linee del passaggio in comunità terapeutica, aprendo un vasto campo problematico, che vede al centro la questione delle identità dei soggetti stessi, tesi tra la propria definizione in quanto detenuti e quella di individui che necessitano di supporto, terapia e cura.

Le modalità di ingresso del paziente in CT risultano essere un elemento essenziale in relazione alla sua permanenza ed al lavoro terapeutico; il fatto che una questione tanto importante si possa giocare e rischiare di risolvere in modo ambiguo attraverso una identità non definita, crea spesso problemi nel percorso di cura e presa in carico da parte dell’intera équipe.

Appare necessario avviare una riflessione intorno al tema, di certo complesso: sebbene sia facile vedere in quelle dinamiche descritte una nuova opportunità per le comunità terapeutiche di ripensare il proprio ruolo e tornare su temi potenti – come quelli legati alla democrazia interna ed alla deriva politica ed ideologica che rischia di relegare queste strutture ad un ruolo di segmentazione sociale e separazione secondo un mandato sociale che aveva già investito l’ospedale psichiatrico fino alla sua definitiva chiusura- d’altra parte, non è difficile percepire il rischio che si cela dietro la traduzione dei percorsi detentivi in quelli di cura.

La  traduzione, infatti, qualora non dovesse avvenire in maniera lineare, assumerebbe le sembianze di minaccia per i compiti, gli obiettivi e gli strumenti della CT stessa. Facciamo riferimento, in particolare, al rischio che i codici dell’OPG possano fare ingresso e determinare una mutazione delle istanze di cura della CT, attraverso le forme del controllo, della chiusura della discussione e delle opportunità democratiche offerte in ambito terapeutico. Non è possibile ignorare, infatti, quanto le misure di sicurezza facciano ingresso prepotente in Comunità e determinino una poderosa virata del lavoro verso inedite procedure di organizzazione molecolare delle esistenze dei soggetti coinvolti.

Crediamo sia possibile, all’interno di un quadro del genere, affermare e proporre con forza la dimensione terapeutica e di cura come cardine intorno al quale far ruotare il nuovo mandato sociale a cui la Comunità stessa è sottoposta; in particolare, crediamo che si debba esorcizzare il rischio di una costruzione tecnicistica de-soggettivante del paziente, scardinando l’impianto tecnico legale tipico della dimensione detentiva: a tal fine, l’unico elemento su cui ci pare realistico puntare è quello della presa in carico in quanto Cura e attenzione alla componente soggettiva del singolo individuo, ed ad un reinserimento critico e non solo formale del paziente in un contesto carico simbolicamente ed emotivamente. Ciò permetterebbe, a nostro avviso, di ricostruire in un’ottica più accettabile e carica di senso anche la serie di misure e norme restrittive a cui questi soggetti sono sottoposti; di là dal rappresentare solo elementi tecnico-legali, quelle devono essere considerate in quanto elementi materialmente ed idealmente pregni, intorno a cui costruire una prima forma di lavoro terapeutico e di discussione aperta.

Alessandro Prezioso,

Alessandra Ruberto

alessandraruberto2@libero.it

 

Il tema trattato dal gruppo questo mese è quello del Desiderio: i partecipanti hanno dato vita ad un confronto che ha lasciato affiorare gli elementi più intimi di ognuno, non dimenticando l’istanza della mancanza di desiderio, che sembra animare non solo l’universo delle nuove patologie psichiatriche, ma anche il quadro culturale e sociale del nostro tempo.

Sogni e desideri

Io sono una persona che vive in comunità da alcuni anni, il mio desiderio è quello di poter tornare a casa. Il desiderio accomuna tutte le persone, è l’espressione che utilizziamo per definire i nostri sogni più nascosti, che noi alimentiamo con la speranza che si possano realizzare.

Se credi fortemente in un sogno, questo diverrà realtà; le cose che maggiormente desidero sono: la libertà, il sentirsi amato dalle persone e avere al proprio fianco una persona con cui condividere le proprie scelte e esperienze.

Nicola Spadaccini

 

 

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