Il cammino del cristianesimo e, in modo parallelo quello delle chiese cristiane da esso costituite, è stato sempre plurimo e a sfaccettature distinte nelle forme organizzative, nelle liturgie e nelle teologie fin dai tempi apostolici. Pur nella costante ricerca dell’unità, non è stato mai “uniforme”, bensì «unito», nell’unità dell’unico Gesù di Nazareth, morto e risorto, creduto e professato come il Cristo, compimento delle promesse affidate al primo popolo dell’alleanza, ma, da Cristo in poi, esteso a tutti i popoli (cattolicità) per cui non è più rilevante “l’etnico” ma la fede, il “credo”, il mistico, la tradizione dell’unica “Parola di Dio” all’umanità.
Chiaramente la storia dei popoli ha conosciuto diversità di sistemi, di opportunità e di tragedie, che di volta in volta hanno chiamato gli uomini, credenti e non, a dare risposte, a cercare vie nuove che, da una parte, mettessero in rilievo il valore dell’uomo, della sua vita, delle sue relazioni e delle sue opere, e, dall’altra, affrontassero i nodi di sofferenza e di limite che gli eventi o le scelte avessero fatto incontrare.
In questo contesto e nei suoi due millenni di storia vissuta, il cristianesimo e le chiese si sono intrecciate alla storia degli uomini portando del proprio e assumendo dal contesto nuovi linguaggi, nuovi significati, nuovi orizzonti di valori e di prassi, pur con una continua ricerca di fedeltà alla radice: guardando alle origini (la chiesa primitiva) si è cercato di interpretare il presente, con sapienza ed esperienza che la stessa vita esigeva e che gli eventi ponevano con urgenza.
Colui che ha saputo, come persona o come gruppo, interpretare il presente come capace di generare un futuro che unisse fedeltà alla radice e coraggioso cammino liberante è stato riconosciuto come “profeta”, “testimone”, “giusto”, “santo”. Se l’ultima parola è più usata dai credenti, le prime tre sono usate da questi e dai non credenti con uguale spessore di contenuto e di valore. Un tratto di questo lungo e creativo cammino che ha conosciuto luci e ombre, profezia e lacerazioni, spetta ad ogni generazione.
L’oggi della storia conosce, nonostante le inquietudini e i sussulti, orizzonti di inaudito splendore: il mondo è uno. Non solo perché è possibile vederlo da una astronave come una piccola sfera immersa nell’universo, ma soprattutto perché lo si avverte come convivialità di popoli la cui sorte è sempre più associata in unità nella speranza o nella catastrofe. La parola “fraternità”, usata dai cristiani delle origini come parola che indicasse la nuova condizione in Cristo e continuamente ripetuta nelle liturgie dei cristiani di ogni lingua, confessione e denominazione, come la parola “comunità” convocata in unità (ecclesia), sono le più usate ed abusate dai linguaggi religiosi e non, ma stentano a trovare realizzazioni significative che diano spessore e dignità a chiunque le pronunci o da esse ne sia incluso. Purtroppo il mondo è uno anche per criminali, mercanti e poteri di qualunque genere, anzi per questi prima che per gli uomini della semplice “razza umana”.
La vera profezia del futuro è racchiusa nei diritti dell’uomo, ampliati ai diritti dei popoli, dei viventi, della terra, dei beni comuni; rappresentano il futuro «giusto»… «l’ideale da raggiungere». Con serenità si deve riconoscere che il “linguaggio” della chiesa cattolica e delle altre chiese non è difforme da quanto, in sedi civili come l’ONU e le organizzazioni mondiali, si afferma e si proclama. Basta ripercorrere gli indici, per la prima, dei documenti del cosiddetto “magistero sociale”: dal primo del 1891: Rerum Novarum a quelli successivi, soprattutto quelli del secondo dopoguerra e post-Vaticano II: 1963: Pacem in Terris ; 1964: Ecclesiam Suam sul dialogo; 1967: Populorum progressio sul mondo nuovo e i nuovi popoli; 1981: Laborem exercens (80° della RN); 1968: Prima giornata mondiale per la pace; 1987: Sollecitudo rei socialis (XX° della PP); 1991: Centesimus Annus; 2004: Compendio della Dottrina sociale.
Il pensiero magisteriale è elevato mentre il pensiero teologico è titubante su questi temi, ancor più la prassi dei cristiani e delle chiese spesso è smarrita e incerta, troppo ferma alla ripetizione dei principi, poco partecipe al farsi dei processi liberanti, troppo spesso sul guado, senza scendere in campo in difesa degli “ultimi”, nonostante la «scelta preferenziale» conclamata.
Occorre perciò una nuova stagione di “profeti – testimoni – giusti – santi”. Occorre una storia di “buone prassi” vissute da persone, gruppi civili, popoli, governi e chiese che immettano nella storia frantumata dagli interessi e dai poteri in concorrenza/conflitto, i germi di una nuova umanità nascente in sintonia e solidarietà; liberarsi di molti “schemi concettuali” (ideologie) del passato, insufficienti all’oggi e, ancor più, svestirsi di molti schemi di potere per assumere il potere dello spirito e, per i cristiani, quella della «libertà dei figli di Dio»: essi, rivelandosi in opera, parteciperanno al “travaglio” di un mondo nuovo, generandolo con sofferenza e speranza, da madri premurose, non da clienti o, peggio, da sfruttatori.
Per la vita necessitano madri e padri, coltivatori, custodi e “governan- ti” (popolarmente il compito di dar da mangiare agli animali nella stalla si diceva governare gli animali); per la morte, invece, bastano poteri in conflitto, costituiti o nascosti, non fa differenza. ☺
Il cammino del cristianesimo e, in modo parallelo quello delle chiese cristiane da esso costituite, è stato sempre plurimo e a sfaccettature distinte nelle forme organizzative, nelle liturgie e nelle teologie fin dai tempi apostolici. Pur nella costante ricerca dell’unità, non è stato mai “uniforme”, bensì «unito», nell’unità dell’unico Gesù di Nazareth, morto e risorto, creduto e professato come il Cristo, compimento delle promesse affidate al primo popolo dell’alleanza, ma, da Cristo in poi, esteso a tutti i popoli (cattolicità) per cui non è più rilevante “l’etnico” ma la fede, il “credo”, il mistico, la tradizione dell’unica “Parola di Dio” all’umanità.
Chiaramente la storia dei popoli ha conosciuto diversità di sistemi, di opportunità e di tragedie, che di volta in volta hanno chiamato gli uomini, credenti e non, a dare risposte, a cercare vie nuove che, da una parte, mettessero in rilievo il valore dell’uomo, della sua vita, delle sue relazioni e delle sue opere, e, dall’altra, affrontassero i nodi di sofferenza e di limite che gli eventi o le scelte avessero fatto incontrare.
In questo contesto e nei suoi due millenni di storia vissuta, il cristianesimo e le chiese si sono intrecciate alla storia degli uomini portando del proprio e assumendo dal contesto nuovi linguaggi, nuovi significati, nuovi orizzonti di valori e di prassi, pur con una continua ricerca di fedeltà alla radice: guardando alle origini (la chiesa primitiva) si è cercato di interpretare il presente, con sapienza ed esperienza che la stessa vita esigeva e che gli eventi ponevano con urgenza.
Colui che ha saputo, come persona o come gruppo, interpretare il presente come capace di generare un futuro che unisse fedeltà alla radice e coraggioso cammino liberante è stato riconosciuto come “profeta”, “testimone”, “giusto”, “santo”. Se l’ultima parola è più usata dai credenti, le prime tre sono usate da questi e dai non credenti con uguale spessore di contenuto e di valore. Un tratto di questo lungo e creativo cammino che ha conosciuto luci e ombre, profezia e lacerazioni, spetta ad ogni generazione.
L’oggi della storia conosce, nonostante le inquietudini e i sussulti, orizzonti di inaudito splendore: il mondo è uno. Non solo perché è possibile vederlo da una astronave come una piccola sfera immersa nell’universo, ma soprattutto perché lo si avverte come convivialità di popoli la cui sorte è sempre più associata in unità nella speranza o nella catastrofe. La parola “fraternità”, usata dai cristiani delle origini come parola che indicasse la nuova condizione in Cristo e continuamente ripetuta nelle liturgie dei cristiani di ogni lingua, confessione e denominazione, come la parola “comunità” convocata in unità (ecclesia), sono le più usate ed abusate dai linguaggi religiosi e non, ma stentano a trovare realizzazioni significative che diano spessore e dignità a chiunque le pronunci o da esse ne sia incluso. Purtroppo il mondo è uno anche per criminali, mercanti e poteri di qualunque genere, anzi per questi prima che per gli uomini della semplice “razza umana”.
La vera profezia del futuro è racchiusa nei diritti dell’uomo, ampliati ai diritti dei popoli, dei viventi, della terra, dei beni comuni; rappresentano il futuro «giusto»… «l’ideale da raggiungere». Con serenità si deve riconoscere che il “linguaggio” della chiesa cattolica e delle altre chiese non è difforme da quanto, in sedi civili come l’ONU e le organizzazioni mondiali, si afferma e si proclama. Basta ripercorrere gli indici, per la prima, dei documenti del cosiddetto “magistero sociale”: dal primo del 1891: Rerum Novarum a quelli successivi, soprattutto quelli del secondo dopoguerra e post-Vaticano II: 1963: Pacem in Terris ; 1964: Ecclesiam Suam sul dialogo; 1967: Populorum progressio sul mondo nuovo e i nuovi popoli; 1981: Laborem exercens (80° della RN); 1968: Prima giornata mondiale per la pace; 1987: Sollecitudo rei socialis (XX° della PP); 1991: Centesimus Annus; 2004: Compendio della Dottrina sociale.
Il pensiero magisteriale è elevato mentre il pensiero teologico è titubante su questi temi, ancor più la prassi dei cristiani e delle chiese spesso è smarrita e incerta, troppo ferma alla ripetizione dei principi, poco partecipe al farsi dei processi liberanti, troppo spesso sul guado, senza scendere in campo in difesa degli “ultimi”, nonostante la «scelta preferenziale» conclamata.
Occorre perciò una nuova stagione di “profeti – testimoni – giusti – santi”. Occorre una storia di “buone prassi” vissute da persone, gruppi civili, popoli, governi e chiese che immettano nella storia frantumata dagli interessi e dai poteri in concorrenza/conflitto, i germi di una nuova umanità nascente in sintonia e solidarietà; liberarsi di molti “schemi concettuali” (ideologie) del passato, insufficienti all’oggi e, ancor più, svestirsi di molti schemi di potere per assumere il potere dello spirito e, per i cristiani, quella della «libertà dei figli di Dio»: essi, rivelandosi in opera, parteciperanno al “travaglio” di un mondo nuovo, generandolo con sofferenza e speranza, da madri premurose, non da clienti o, peggio, da sfruttatori.
Per la vita necessitano madri e padri, coltivatori, custodi e “governan- ti” (popolarmente il compito di dar da mangiare agli animali nella stalla si diceva governare gli animali); per la morte, invece, bastano poteri in conflitto, costituiti o nascosti, non fa differenza. ☺
Il cammino del cristianesimo e, in modo parallelo quello delle chiese cristiane da esso costituite, è stato sempre plurimo e a sfaccettature distinte nelle forme organizzative, nelle liturgie e nelle teologie fin dai tempi apostolici. Pur nella costante ricerca dell’unità, non è stato mai “uniforme”, bensì «unito», nell’unità dell’unico Gesù di Nazareth, morto e risorto, creduto e professato come il Cristo, compimento delle promesse affidate al primo popolo dell’alleanza, ma, da Cristo in poi, esteso a tutti i popoli (cattolicità) per cui non è più rilevante “l’etnico” ma la fede, il “credo”, il mistico, la tradizione dell’unica “Parola di Dio” all’umanità.
Chiaramente la storia dei popoli ha conosciuto diversità di sistemi, di opportunità e di tragedie, che di volta in volta hanno chiamato gli uomini, credenti e non, a dare risposte, a cercare vie nuove che, da una parte, mettessero in rilievo il valore dell’uomo, della sua vita, delle sue relazioni e delle sue opere, e, dall’altra, affrontassero i nodi di sofferenza e di limite che gli eventi o le scelte avessero fatto incontrare.
In questo contesto e nei suoi due millenni di storia vissuta, il cristianesimo e le chiese si sono intrecciate alla storia degli uomini portando del proprio e assumendo dal contesto nuovi linguaggi, nuovi significati, nuovi orizzonti di valori e di prassi, pur con una continua ricerca di fedeltà alla radice: guardando alle origini (la chiesa primitiva) si è cercato di interpretare il presente, con sapienza ed esperienza che la stessa vita esigeva e che gli eventi ponevano con urgenza.
Colui che ha saputo, come persona o come gruppo, interpretare il presente come capace di generare un futuro che unisse fedeltà alla radice e coraggioso cammino liberante è stato riconosciuto come “profeta”, “testimone”, “giusto”, “santo”. Se l’ultima parola è più usata dai credenti, le prime tre sono usate da questi e dai non credenti con uguale spessore di contenuto e di valore. Un tratto di questo lungo e creativo cammino che ha conosciuto luci e ombre, profezia e lacerazioni, spetta ad ogni generazione.
L’oggi della storia conosce, nonostante le inquietudini e i sussulti, orizzonti di inaudito splendore: il mondo è uno. Non solo perché è possibile vederlo da una astronave come una piccola sfera immersa nell’universo, ma soprattutto perché lo si avverte come convivialità di popoli la cui sorte è sempre più associata in unità nella speranza o nella catastrofe. La parola “fraternità”, usata dai cristiani delle origini come parola che indicasse la nuova condizione in Cristo e continuamente ripetuta nelle liturgie dei cristiani di ogni lingua, confessione e denominazione, come la parola “comunità” convocata in unità (ecclesia), sono le più usate ed abusate dai linguaggi religiosi e non, ma stentano a trovare realizzazioni significative che diano spessore e dignità a chiunque le pronunci o da esse ne sia incluso. Purtroppo il mondo è uno anche per criminali, mercanti e poteri di qualunque genere, anzi per questi prima che per gli uomini della semplice “razza umana”.
La vera profezia del futuro è racchiusa nei diritti dell’uomo, ampliati ai diritti dei popoli, dei viventi, della terra, dei beni comuni; rappresentano il futuro «giusto»… «l’ideale da raggiungere». Con serenità si deve riconoscere che il “linguaggio” della chiesa cattolica e delle altre chiese non è difforme da quanto, in sedi civili come l’ONU e le organizzazioni mondiali, si afferma e si proclama. Basta ripercorrere gli indici, per la prima, dei documenti del cosiddetto “magistero sociale”: dal primo del 1891: Rerum Novarum a quelli successivi, soprattutto quelli del secondo dopoguerra e post-Vaticano II: 1963: Pacem in Terris ; 1964: Ecclesiam Suam sul dialogo; 1967: Populorum progressio sul mondo nuovo e i nuovi popoli; 1981: Laborem exercens (80° della RN); 1968: Prima giornata mondiale per la pace; 1987: Sollecitudo rei socialis (XX° della PP); 1991: Centesimus Annus; 2004: Compendio della Dottrina sociale.
Il pensiero magisteriale è elevato mentre il pensiero teologico è titubante su questi temi, ancor più la prassi dei cristiani e delle chiese spesso è smarrita e incerta, troppo ferma alla ripetizione dei principi, poco partecipe al farsi dei processi liberanti, troppo spesso sul guado, senza scendere in campo in difesa degli “ultimi”, nonostante la «scelta preferenziale» conclamata.
Occorre perciò una nuova stagione di “profeti – testimoni – giusti – santi”. Occorre una storia di “buone prassi” vissute da persone, gruppi civili, popoli, governi e chiese che immettano nella storia frantumata dagli interessi e dai poteri in concorrenza/conflitto, i germi di una nuova umanità nascente in sintonia e solidarietà; liberarsi di molti “schemi concettuali” (ideologie) del passato, insufficienti all’oggi e, ancor più, svestirsi di molti schemi di potere per assumere il potere dello spirito e, per i cristiani, quella della «libertà dei figli di Dio»: essi, rivelandosi in opera, parteciperanno al “travaglio” di un mondo nuovo, generandolo con sofferenza e speranza, da madri premurose, non da clienti o, peggio, da sfruttatori.
Per la vita necessitano madri e padri, coltivatori, custodi e “governan- ti” (popolarmente il compito di dar da mangiare agli animali nella stalla si diceva governare gli animali); per la morte, invece, bastano poteri in conflitto, costituiti o nascosti, non fa differenza. ☺
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