chiesa e meridione (1948 – 1989)
31 Maggio 2010 Share

chiesa e meridione (1948 – 1989)

 

La Lettera collettiva dei vescovi meridionali “I problemi del Mezzogiorno” (25.01.1948) affronta “i problemi più urgenti” all’interno di un  mondo meridionale caratterizzato – si ritiene – da una profonda religiosità: perciò l’inquadratura generale si pone all’interno di una duplice cornice culturale: una religione più pura e una giustizia più piena.

La “religiosità del nostro popolo”, ritenuta punto di forza vitale, in molti “tende a permeare di sé tutta la vita”, conosce segni di crisi, “in altri, purtroppo, e non son pochi, più che consapevolezza e disciplina è sentimento e tradizione”. La forza ispiratrice della religione non riesce a generare percorsi di giustizia e di trasformazione sociale. “Se misuriamo la vita religiosa delle nostre popolazioni… e sappiamo riconoscere le non poche né lievi difficoltà e resistenze che l’attuazione di norme di giustizia incontra nel Mezzogiorno d’Italia dobbiamo con amarezza concludere che non di rado ci muoviamo in un mondo cristiano solo d’apparenza”(n.2).

L’urgenza sociale deve smuovere le coscienze dei cristiani a non rimanere “indifferenti ed inerti di fronte alla resistente miseria di alcune classi del popolo, alla precarietà di vita e instabilità del bracciantato, al reddito estremamente basso di alcuni lavoratori e coloni, all’evidente ingiustizia di talune forme contrattuali, all’insufficienza di alcune strutture economiche, ai complessi e gravi problemi connessi col persistente latifondo”.

La situazione critica ha origine dai “resti di un regime economico in cui lo stesso diritto di proprietà… è diventato per molti un potere diretto verso lo sfruttamento dell’opera altrui” (n.3). Per quanto “penosa e torbida crisi” nella sua origine “si tratta non già di involuzione, ma di maturazione e di crescenza in cui si agitano… aspirazioni essenzialmente cristiane” (n.6). Perciò contro la paura di quanti vedono un rischio per la cultura cristiana, occorre riconoscere che “si tratta di aspirazioni che trovano il loro fondamento in una più matura consapevolezza della dignità della persona umana, dell’essenziale uguaglianza tra gli uomini, della preminenza del lavoro, dell’insopprimibile diritto dell’uomo ad attuare, in senso di libera responsabilità, la sua missione e di perfezionare la sua personalità”.

L’obiettivo culturale dei vescovi si prefigge ancora “l’instaurazione di un nuovo periodo di civiltà cristiana” (n.8) ma va riconosciuto in questi passaggi l’accoglienza sincera della visione costituzionale  appena proclamata dall’Italia repubblicana, sebbene mai citata.

Guidati dai principi della visione cristiana (strumentalità della ricchezza, primitiva destinazione dei beni materiali al servizio di tutti gli uomini, diritto naturale alla proprietà privata, ordinamento sociale che impedisca la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, il diritto naturale di ciascun individuo a fare del lavoro il mezzo per provvedere alla vita propria e dei figli e al suo e loro sviluppo) la lettera invita le chiese ad affrontare decisamente i “più spinosi e urgenti” problemi delle nostre regioni relativi a “la proprietà terriera, i rapporti contrattuali, le condizioni dei braccianti, l’ambiente di vita dei lavoratori” (n.9). L’obiettivo finale dovrà essere un “riordinamento sociale” opera di giustizia e frutto di carità (n.13). La lettera sarà firmata da 73 vescovi e tre abati, ma da nessun vescovo siciliano per la netta opposizione del Card. Ruffini di Palermo.

Il primo documento di tutto l’episcopato italiano “Sviluppo nella solidarietà. Chiesa Italiana e Mezzogiorno” è del 18 ottobre 1989, circa un mese prima del crollo del muro di Berlino (9 novembre 1989).

Fin dall’inizio, emerge una sensazione di ristagno sulla questione, esplicitata nelle finalità del documento: “generare una presa di coscienza collettiva dei problemi che ancora gravano sul Mezzogiorno nel contesto di tutto il Paese, e a stimolare così un impegno di sviluppo autonomo e integrale delle regioni meridionali”.  Sebbene “molti dei rilievi” sul mezzogiorno “sono riferibili a tutto il Paese” perché i termini della questione meridionale “sono sempre più termini nazionali” (n.7), l’individuazione dei problemi dà la dimensione del tempo perso e sciupato perché lo sviluppo meridionale viene definito in modo secco “sviluppo incompiuto, distorto, dipendente, frammentato” (n.8). Sul fronte del lavoro, sviluppo incompiuto (n.9), perché la disoccupazione giovanile del sud si configura “come la più grande questione nazionale degli anni ‘90”. Sviluppo distorto perché “il modello di sviluppo imposto al sud non solo ha avuto effetti di disuguaglianza, ma ha prodotto un processo di disgregazione dei modelli culturali propri delle regioni meridionali” (n.10). Sviluppo dipendente (n.12) perché modelli economici importati “non si sono integrati in quelli socio-culturali del sud” generando una “complessiva struttura di regressione”. Ha aggravato il disagio del sud ridotto a “oggetto”  più che “soggetto” del proprio sviluppo, favorendo “rapporti di dipendenza verticale verso le istituzioni, con una crisi di sviluppo della società civile e delle autonomie locali”.  L’ostacolo principale “risiede nel peso eccessivo dei rapporti di potere politico” sebbene “non è solo un problema meridionale. È un problema morale di tutto il Paese”. Sviluppo frammentato: negli ultimi quarant’anni “sono stati assorbiti "modelli lontani", che hanno prodotto una certa modernizzazione senza un vero e proprio sviluppo, creando distorsioni ed evidenziando tendenze alla devianza” (n.13).

Le organizzazioni criminali di “antiche radici storiche” hanno trovato “un humus e disponibilità all’aggregazione per carenze di sviluppo economico, sociale e civile e in particolare per la disoccupazione di troppi giovani, ai quali offrono la lusinga di rapidi guadagni” (n.13). Fenomeno che la chiesa “condanna radicalmente” perché “non è il Mezzogiorno; ne è invece solo una malattia, un cancro” in quanto il loro agire “offende l’uomo, la società, ogni senso etico, religioso, il senso stesso dell’"onore" e si ritorce, poi, contro loro stessi”.

Mentre nel documento del 1948  la “penosa e torbida crisi” veniva letta come crisi “non già di involuzione, ma di maturazione e di crescenza” nel documento del 1989, abbiamo la sensazione del bollettino della disfatta. Sebbene la speranza sia la connotazione finale comune c’è da chiedersi quale presenza hanno espresso le chiese in questo disastro? Come mai dopo decenni di “politica meridionalistica” si è costretti ad un bilancio così magro? Vedremo il recente documento del 2010, di fronte alla sfida del federalismo, e ripercorreremo il cammino della proposta positiva (luci e ombre) della chiesa dal 1948 ad oggi.☺

 

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