Ciao annamaria
20 Marzo 2019
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Ciao annamaria

Valediction, vocabolo in disuso nell’inglese contemporaneo, mi consente di esternare una mia condizione personale.

Dal latino vale dicere, pronunciare un saluto, generalmente di congedo, il termine appartiene all’inglese del Seicento ed indica sia l’azione di salutare qualcuno, sia il commiato in sé. Il poeta John Donne (1572-1631) l’ha utilizzato per intitolare una lirica dedicata alla moglie, “A Valediction: Forbidding Mourning” che si può tradurre con “Commiato: vietato piangere”. Nel testo è presente la nota metafora del compasso: le due aste sono congiunte alla cima e il loro movimento è guidato da quella che resta saldamente ferma per permettere all’altra di girare e disegnare il cerchio perfetto. Paragonandosi all’asta che gira il poeta, rivolgendosi alla sua compagna, conclude: “tale sarai tu per me poiché devo,/ come l’altro piede, correre obliquamente,/ la tua saldezza rende giusto il cerchio/ e mi fa finire dove ho cominciato”.

“Ride la gazza, nera sugli aranci”: la tua mano tremolante ha trascritto su un quaderno i versi di Salvatore Quasimodo ed è questo l’ultimo scritto che mi rimane di te.

Il testo poetico l’avevi cercato sul web tra le tracce per gli esami di stato, un cenno al mondo della scuola che temporaneamente avevi accantonato, ma non dimenticato, ed al quale ti sei sempre dedicata con impegno e passione. Ti ha colpito questa lirica in cui riemergono le memorie dell’infanzia, delle persone care, del paese natale: “forse è un segno vero della vita” esordisce il poeta, e mi piace pensare che queste parole siano state da te profondamente sentite e condivise. Nei versi Quasimodo fa affiorare la nostalgia della terra natìa, vista come un paradiso perduto, le luci, le ombre, i suoni e i colori dei ricordi, soprattutto dei giochi infantili fatti di cantilene e di movimenti. Ed anche per te il paese natale significava spensieratezza ed ingenuità dell’infanzia.

Il riemergere delle emozioni più profonde appare ora una semplice parentesi alla sofferenza causata dalla malattia. Ma non un arrendersi: pur nella consapevolezza della tua complessa condizione, il ricordo è stato un tuo compagno fedele: le figure familiari scomparse così presto, le amicizie ancora intatte nonostante il trascorrere del tempo, le esperienze gratificanti derivate dal tuo lavoro. E ricordo poi equivaleva a desiderio di non fermarsi, a proseguire nonostante tutto, ad amare la vita pur così avara e dura, a sognare!

“Scorazziamo nella vita spronati dai sogni, carburante efficace e grandioso. Tuttavia non privo di scorie: le frustrazioni. Scintillano in margine al sogno e ne fanno materia infiammabile e quindi pericolosa”. (Haim Baharier). Sì, i sogni si infrangono su quello che è il loro limite: la nostra finitezza!

“Dalla morte siamo equidistanti” ripetevi spesso, facendo tua l’affermazione del nostro caro Antonio, ed ora soltanto posso comprendere come si rafforzasse in te la coscienza della nostra condizione di fragilità. Quando i sogni tramontano la frustrazione si annida in noi, ci travolge e affligge ma – ora più che mai me ne sto rendendo conto – ci consente anche di prendere coscienza di una carenza interiore, provocando un mutamento d’identità. “Mutiamo quando risaliamo nel nocciolo oscuro della nostra interiorità e scopriamo innanzitutto che siamo diminuiti, esseri claudicanti”. Qualcosa di meno: ecco come mi sento ora io.

Sovrastato dalla “ferocia dell’ assenza” mi conforta il ricordo di te e mi consolano i versi di un altro poeta da te molto amato: “Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida”(Eugenio Montale).

Ciao Annamaria!☺

 

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