come un aquilone
18 Aprile 2010 Share

come un aquilone

 

Il sogno? un aquilone smagliante, lanciato verso il cielo, sostenuto dal vento e governato, a un tempo, dal basso, da terra: da sguardi che misurano l’orizzonte, da mani che stringono forte il filo, perché la splendida cometa non perda il vento, da piedi che corrono in avanti a tener testa al volo…

Il sogno non è una vaga aspirazione; è qualcosa che ti arde dentro e  ti conduce: un ideale, un valore da conseguire, un’attesa costruttiva che si fonda su una fede – in te, in Qualcuno – ed è animata dalla speranza. Impegna il tuo presente in vista del futuro: sarà un futuro più o meno vicino se si tratta di un piccolo sogno, tutto intimo e personale; sarà un’attesa lunga, spesso faticosa, forse uno sperare contra spem, se abbraccia il mondo intero e il suo futuro. È l’antico sogno di giustizia e di pace che ha attraversato la storia… “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci… non si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Isaia 2,4). “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Matteo 5, 9). “Il Signore mi rivelò questo saluto, di dire cioè: Il Signore ti dia pace” (dal Testamento del Santo Padre Francesco).

Hanno tuttora il valore di un monito le parole che il sognatore Giorgio La Pira, pellegrino di pace, pronunciò, in tempi molto più recenti, nel giugno 1970, al Congresso delle Città Unite a Leningrado: “Questa età è apocalittica e di duplice significato del termine: età di pace totale o di distruzione totale… Un milione di megatoni è il potenziale che si trova negli arsenali nucleari delle massime potenze, quando la bomba di Hiroshima era di soli 0,015 megatoni. Quindi il genere umano ha in mano il suo “non essere”: il potere di distruggere totalmente se stesso… L’alternativa “essere e non essere” è stata posta. Da questa scelta non ci si può liberare: non è facoltativa”.

Ultimamente, mons. Mario Paciello, delegato dalla Caritas Italiana al Social Forum di Nairobi (gennaio 2007), raccontava su Mosaico di pace, rivista di Pax Christi, le sue impressioni sull’evento da lui vissuto e il suo sogno: “I poveri sanno essere felici; a noi non basta mai nulla. I poveri hanno tempo per Dio; noi siamo sempre in adorazione dei nostri bisogni. Un altro mondo è possibile e, se è possibile, non è e non può essere un’utopia. Se si ritarda la sua attuazione, è tutta responsabilità e colpa di quanti ne ostacolano l’avvio”.

Che il sogno sia possibile, che l’aquilone possa volare per una nostra scelta di speranza, è motivato da tanti segni intorno a noi. Basta guardare, indagare, interrogare. Gli esperti in questo campo, i sociologi, sono ottimisti.

Si sta facendo strada una solidarietà di pensieri, di intenti, di comportamenti che può sfociare in un vero progetto condiviso. Sembra spiri un vento favorevole al lancio del nostro aquilone.

È importante allora non tacere: i sogni vanno narrati e confrontati. Lo fa egregiamente questo giornale, una voce plurale, coraggiosa, propositiva. Il direttore, prete di spirito laico, in un articolo apparso nel numero di novembre 2006, auspica una Chiesa meno gerarchica e più conciliare, collegiale, dialogante; meno implicata nel potere politico ed economico e più libera, profetica, spirituale; meno dogmatica e più incarnata, come nello splendido incipit della Gaudium et Spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi,dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”.

In tempi di riflussi istituzionali della Chiesa, come questo, può essere preziosa la memoria di un testimone della grandezza di Francesco d’Assisi. “È un santo da far ricircolare – scriveva Ernesto Balducci – perché nel suo modo di avvertire una Chiesa diversa e di voler testimoniarla (andando di casa in casa a dire: Pace a questa casa), non c’è soltanto una mirabile espressione delle possibilità umane scritte nel passato, c’è uno spezzone di futuro”. Francesco perseguì l’ideale di una fraternità impostata ad litteram sul vangelo: l’istituzione ebbe paura della sua portata e ne determinò il fallimento.

Ci resta un’altra regola scritta da san Francesco, Della vita religiosa nell’eremo, che ci permette di capire come il santo intendesse la sua fraternitas: non superiori, ministri, gerarchi, ma una famiglia, anzi di più: una trama di rapporti amorosi, teneri, come quelli di una madre verso i propri figli. “Quei frati, che vogliono ritirarsi a vivere religiosamente negli eremi, siano tre o al più quattro. Due di loro facciano da madri e abbiano come figli due o almeno un altro religioso. I primi vivano come Marta, gli altri due come Maria”.

La città di Assisi ha ricordato lo scorso anno l’ottavo centenario della conversione di Francesco (1206 – 2006): l’incontro col lebbroso fu decisivo nella sua scelta evangelica; furono tuttavia necessari ancora quattro, cinque anni perché si orientasse definitivamente verso l’apostolato, pur amando la contemplazione. Il comune e la diocesi di Assisi hanno predisposto un iter, per i prossimi anni, che sarà insieme civile, ecclesiale e spirituale, al fine di commemorare i momenti significativi della conversione del santo.

Mettiamoci anche noi alla riscoperta del fascino di Francesco. ☺

 

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