monongan, torino
17 Aprile 2010 Share

monongan, torino

 

Giovedì 6 dicembre, Monongah, West Virginia, Stai Uniti d’ America, ore 11, i tocchi della campana che da Agnone è partita per ricordare la più grave tragedia mineraria che ha colpito il popolo italiano e i suoi migranti.

Giovedì 6 dicembre, Torino, Piemonte, Italia, ore 1,10 acciaieria di corso Regina Margherita, incendio lungo la linea 5, muore Antonio Schiavone e, nei giorni successivi, perdono la vita anche Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo. Sempre in condizioni gravissime sono altri due operai: Giuseppe de Masi e Rosario Rodinò.

La notizia piomba anche tra le centinaia di persone che si sono raccolte per ricordare la tragedia dimenticata, i 171 morti ufficiali e i tanti scomparsi senza nome. Tra loro centinaia di bambini scesi nella miniera con i loro genitori per aumentare la produzione. Monongah è veramente un piccolo paese. Assomiglia a quei comuni dell’Alto Molise quando, d’inverno, la neve copre ogni cosa, il tempo si rallenta e le persone attendono che arrivi la primavera.

La cerimonia vive di quei 171 nomi scanditi dai giovani del Paese, dalla commozione della gente, dalla presenza invasiva di quella statua che rappresenta il dolore drammatico delle mogli, delle madri, dei figli sopravvissuti.

Ci sono i Sindaci, il Governatore del West Virginia che dichiara le sue origini calabresi, le nostre autorità regionali. Ma ciò che appare evidente è che contano poco le parole, i discorsi, le gerarchie. Ciò che contano sono le frasi incise sulla campana, la paura per le tragedie che continuano ad accadere, la voglia di un po’ di sole.

Ma le notizie dall’Italia segnano profondamente. Si cercano notizie, internet, telefono e quando comincia a salire il numero dei decessi ed è chiara la gravità dell’incidente, lo sconforto ti prende la gola. Cent’anni dopo, come se il tempo non fosse passato, come se la straordinaria innovazione delle tecnologie fosse solo una beffa della storia, uomini, lavoratori, giovani, continuano a perdere la vita.

E il filo rosso ha tante analogie. I ritmi, la stanchezza, la gravosità, la ricerca di giustificazioni da parte delle imprese, l’omissione delle responsabilità, l’imputare alla fatalità quanto drammaticamente accade. Così parlava la Fairmont Coal Company, così oggi parla la ThyssenKrupp. Nessuna responsabilità, tutte le norme rispettate, solo drammatica fatalità.

Purtroppo non è così. A Monongah per guadagnare di più si spensero gli aeratori e si permise l'accumulo di gas che fu alla base dell'esplosione. Quest'ipotesi rende comprensibile il rapido oblìo che seguì l'incidente. Infatti, la Fairmont Coal Company, potente e influente compagnia mineraria, ha avuto ogni interesse ad "insabbiare" velocemente una catastrofe di cui si era resa responsabile.

Oggi non sarà così semplice anche se le vicende recenti di troppe tragedie sul lavoro sono finite nel tritatutto di una giustizia lenta, faragginosa, incapace di garantire l’esigibilità di diritti fondamentali, a partire proprio da quello della sicurezza.

La ThyssenKrupp non è una piccola azienda marginale, non è un’impresa del sommerso. E’ un potente gruppo mondiale con solide radici: ma anche in questo caso presumibilmente è prevalsa la logica del profitto su quella della sicurezza esattamente come a Monongah.

Oggi tutti parlano di sicurezza, imprenditori, politici, sindacalisti, opinionisti. Il 6 dicembre a Monongah ho provato a guardarmi dentro e ad interrogarmi se ho fatto sempre quello che avrei dovuto fare. Mi sono ripetuto che la sicurezza non permette mediazioni, non consente il dubbio. Esige certezze, esige sacrificio compreso quello di non ammettere deroghe anche quando questa modalità sembra muoversi contro la garanzia del lavoro. Ma tutto ciò non mi ha dato serenità e so bene che in troppe occasioni avrei potuto fare di più.

Il giudice Casson intervenendo in una delle tante trasmissioni che in questi giorni si è cimentata a parlare di sicurezza, ha denunciato l’ambiguità di quanti in questi giorni hanno espresso cordoglio e che nei mesi recenti si sono opposti all’inasprimento delle pene per chi non rispetta la legislazione sulla sicurezza. E’ una grande verità, una verità amara che si consuma predicando bene e razzolando male a partire da chi confonde la flessibilità con la precarietà, la flessibilità con ritmi inaccettabili, la flessibilità con il ricatto occupazionale.

Come a Monongah i morti diventano numeri, statistiche, oggetti di tavole rotonde e di inconcludenti dibattiti. Una delle ultime foto sulla tragedia mineraria ha una didascalia semplice “Poi la neve coprì ogni cosa”. Il 6 dicembre di 100 anni dopo a Monongah c’era ancora la neve, c’era il ricordo e la promessa di non dimenticare. A Torella del Sannio, nel ricordare la miniera, i giovani delle scuole locali ci hanno messo all’angolo, chiedendoci conto a noi sindacalisti, a noi politici, a noi imprenditori, di ciò che facciamo ogni giorno per evitare una tragedia costante. I Morti di Torino per questo chiedono di più: non basterà la memoria, non basterà ricordare ogni anno quanto è accaduto. Quei morti ci chiedono risposte concrete, capacità di reagire, volontà di non confondere il rigore dell’analisi con la copertura di tanti abusi.

Ecco l’ avventura di Monongah, tristezza per quei morti, tristezza per questi morti.  ☺

i.stellon@gmail.com

 

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