La difficile (sì, difficile, al netto dell’ottimismo da brindisi) situazione che sta vivendo l’Italia si può seriamente affrontare – nel senso almeno di comprendere – soltanto adottando un punto di vista non provinciale né solo nazionale. Insomma una specie di drone che abbracci in un unico sguardo il nostro e gli altri Paesi.
Soccorrono, questa volta, quattro libri molto utili per fare il punto su alcune questioni intorno alle quali fioriscono leggende, più o meno interessate, le quali fanno spesso scambiare fischi per fiaschi. Mentre scrivo non imperversa solo Acheronte, ma anche la stantìa cantilena di un Renzi che denuncia “i piagnistei” del Sud. Versione twittara dell’eterno ritornello di un Sud che vive sfruttando il Nord.
A scoprire la verità ci aiuta Gianfranco Viesti (insegna economia a Bari) nel saggio Il Sud vive alle spalle dell’Italia che produce. Falso! (Idòla. Laterza). Sono pagine che non difendono acriticamente il Sud o con acredine rivedono le bucce al Nord, ma pacatamente “smontano teoremi, stereotipi e falsi idoli”. Per esempio, di fronte all’ovvia considerazione che senza il Sud l’Italia sarebbe più ricca, Viesti argomenta che anche Milano sarebbe più ricca senza le periferie, perché modificando i confini si manipolano le medie. Ma Milano non sarebbe Milano senza le periferie, come l’Italia senza il Sud. Piuttosto c’è da chiedersi se l’Italia si sarebbe sviluppata meglio, dopo il 1861, senza il Sud: “è stato il gettito fiscale dell’ intero paese, di prevalenza prevalentemente agraria, a farsi carico prima del debito piemontese, poi dello sviluppo infrastrutturale, delle ferrovie, delle scuole, dei telegrafi. Sono state le rimesse degli emigranti a finanziare il saldo della bilancia commerciale e a permettere al “triangolo” di industrializzarsi. È stato il sacrificio dell’intero paese e in particolare del Sud agricolo a sostenere la spesa dei grandi salvataggi industriali …”. Ce n’è a sufficienza, credo, per desiderare di leggere tutto il resto.
Altro luogo comune, sbandierato nella marchionnesca corte renziana, è che “dobbiamo abituare la gente che l’istruzione sarà molto più lunga e costosa, le assunzioni a tempo indeterminato molte di meno, i tempi di lavoro più lunghi, i pensionamenti verranno posticipati. Le riforme non hanno solo un fine economico, ma anche e soprattutto sociale perché servono a modificare la mentalità lavorativa degli italiani” (Taddei, responsabile economico del Pd (sic!). Tradotto: addio allo stato sociale. Federico Rampini, però, in un agile volumetto, sempre edito da Laterza, (Non ci possiamo più permettere lo Stato sociale. Falso!) ci spiega perché l’ideologia neoliberista (quella riflessa nelle parole di Taddei) blocca la ripresa e perché sia falso che lo Stato sociale sia ormai insostenibile. Rampini argomenta denunciando la profonda ingiustizia del sistema sociale statunitense e la superiorità del sistema sociale europeo (forse la vera cifra dell’Europa nel Novecento), sviluppando il discorso intorno alle responsabilità storiche di chi causò la crisi del 2008, affrontata poi con mezzi parte inadeguati parte sfacciatamente “com- plici” e di chi volle curare la malattia con una politica economica che invece la aggravava. Dunque, la svolta vera può venire solo da un radicale cambiamento delle scelte, che segnino un ritorno alla lezione di J. M. Keynes. Rampini conclude invocando per l’Italia non solo una politica economica nuova, ma soprattutto una “scelta di civiltà”.
Per avere più chiare e più concrete le prospettive di cambiamento verso un’Italia più attenta agli ultimi, ai disoccupati, alle donne, ai giovani, ecco altri due saggi laterziani (G. Marcon e M. Pianta, Sbilanciamo l’economia. Una via d’uscita dalla crisi e B. Bortolotti, Crescere insieme. Per un’economia giusta.) che sono di lettura meno agevole della prosa anglosassone di Rampini, ma ricchissimi di dati e di idee.
Nel libro di Marcon e Pianta è descritta con toni allarmati la crisi, ma è tracciata la via d’uscita: il mercato sottomesso al bene comune, i profitti sottomessi al lavoro, il privilegio sbaragliato dall’uguaglianza. Ce n’è abbastanza per credere che questo saggio stia sul comodino di papa Francesco a Santa Marta.
Bortolotti rincara la dose accentuando l’allarme sulla “crescita eccessiva delle diseguaglianze”, che è la vera, tragica questione sociale del nostro tempo. Questione per la quale, forse, non basta più una svolta politica ed economica se non si intreccia con una ben più necessaria conversione etico-culturale.
Buona lettura.☺
La difficile (sì, difficile, al netto dell’ottimismo da brindisi) situazione che sta vivendo l’Italia si può seriamente affrontare – nel senso almeno di comprendere – soltanto adottando un punto di vista non provinciale né solo nazionale. Insomma una specie di drone che abbracci in un unico sguardo il nostro e gli altri Paesi.
Soccorrono, questa volta, quattro libri molto utili per fare il punto su alcune questioni intorno alle quali fioriscono leggende, più o meno interessate, le quali fanno spesso scambiare fischi per fiaschi. Mentre scrivo non imperversa solo Acheronte, ma anche la stantìa cantilena di un Renzi che denuncia “i piagnistei” del Sud. Versione twittara dell’eterno ritornello di un Sud che vive sfruttando il Nord.
A scoprire la verità ci aiuta Gianfranco Viesti (insegna economia a Bari) nel saggio Il Sud vive alle spalle dell’Italia che produce. Falso! (Idòla. Laterza). Sono pagine che non difendono acriticamente il Sud o con acredine rivedono le bucce al Nord, ma pacatamente “smontano teoremi, stereotipi e falsi idoli”. Per esempio, di fronte all’ovvia considerazione che senza il Sud l’Italia sarebbe più ricca, Viesti argomenta che anche Milano sarebbe più ricca senza le periferie, perché modificando i confini si manipolano le medie. Ma Milano non sarebbe Milano senza le periferie, come l’Italia senza il Sud. Piuttosto c’è da chiedersi se l’Italia si sarebbe sviluppata meglio, dopo il 1861, senza il Sud: “è stato il gettito fiscale dell’ intero paese, di prevalenza prevalentemente agraria, a farsi carico prima del debito piemontese, poi dello sviluppo infrastrutturale, delle ferrovie, delle scuole, dei telegrafi. Sono state le rimesse degli emigranti a finanziare il saldo della bilancia commerciale e a permettere al “triangolo” di industrializzarsi. È stato il sacrificio dell’intero paese e in particolare del Sud agricolo a sostenere la spesa dei grandi salvataggi industriali …”. Ce n’è a sufficienza, credo, per desiderare di leggere tutto il resto.
Altro luogo comune, sbandierato nella marchionnesca corte renziana, è che “dobbiamo abituare la gente che l’istruzione sarà molto più lunga e costosa, le assunzioni a tempo indeterminato molte di meno, i tempi di lavoro più lunghi, i pensionamenti verranno posticipati. Le riforme non hanno solo un fine economico, ma anche e soprattutto sociale perché servono a modificare la mentalità lavorativa degli italiani” (Taddei, responsabile economico del Pd (sic!). Tradotto: addio allo stato sociale. Federico Rampini, però, in un agile volumetto, sempre edito da Laterza, (Non ci possiamo più permettere lo Stato sociale. Falso!) ci spiega perché l’ideologia neoliberista (quella riflessa nelle parole di Taddei) blocca la ripresa e perché sia falso che lo Stato sociale sia ormai insostenibile. Rampini argomenta denunciando la profonda ingiustizia del sistema sociale statunitense e la superiorità del sistema sociale europeo (forse la vera cifra dell’Europa nel Novecento), sviluppando il discorso intorno alle responsabilità storiche di chi causò la crisi del 2008, affrontata poi con mezzi parte inadeguati parte sfacciatamente “com- plici” e di chi volle curare la malattia con una politica economica che invece la aggravava. Dunque, la svolta vera può venire solo da un radicale cambiamento delle scelte, che segnino un ritorno alla lezione di J. M. Keynes. Rampini conclude invocando per l’Italia non solo una politica economica nuova, ma soprattutto una “scelta di civiltà”.
Per avere più chiare e più concrete le prospettive di cambiamento verso un’Italia più attenta agli ultimi, ai disoccupati, alle donne, ai giovani, ecco altri due saggi laterziani (G. Marcon e M. Pianta, Sbilanciamo l’economia. Una via d’uscita dalla crisi e B. Bortolotti, Crescere insieme. Per un’economia giusta.) che sono di lettura meno agevole della prosa anglosassone di Rampini, ma ricchissimi di dati e di idee.
Nel libro di Marcon e Pianta è descritta con toni allarmati la crisi, ma è tracciata la via d’uscita: il mercato sottomesso al bene comune, i profitti sottomessi al lavoro, il privilegio sbaragliato dall’uguaglianza. Ce n’è abbastanza per credere che questo saggio stia sul comodino di papa Francesco a Santa Marta.
Bortolotti rincara la dose accentuando l’allarme sulla “crescita eccessiva delle diseguaglianze”, che è la vera, tragica questione sociale del nostro tempo. Questione per la quale, forse, non basta più una svolta politica ed economica se non si intreccia con una ben più necessaria conversione etico-culturale.
La difficile (sì, difficile, al netto dell’ottimismo da brindisi) situazione che sta vivendo l’Italia si può seriamente affrontare - nel senso almeno di comprendere - soltanto adottando un punto di vista non provinciale né solo nazionale. Insomma una specie di drone che abbracci in un unico sguardo il nostro e gli altri Paesi.
La difficile (sì, difficile, al netto dell’ottimismo da brindisi) situazione che sta vivendo l’Italia si può seriamente affrontare – nel senso almeno di comprendere – soltanto adottando un punto di vista non provinciale né solo nazionale. Insomma una specie di drone che abbracci in un unico sguardo il nostro e gli altri Paesi.
Soccorrono, questa volta, quattro libri molto utili per fare il punto su alcune questioni intorno alle quali fioriscono leggende, più o meno interessate, le quali fanno spesso scambiare fischi per fiaschi. Mentre scrivo non imperversa solo Acheronte, ma anche la stantìa cantilena di un Renzi che denuncia “i piagnistei” del Sud. Versione twittara dell’eterno ritornello di un Sud che vive sfruttando il Nord.
A scoprire la verità ci aiuta Gianfranco Viesti (insegna economia a Bari) nel saggio Il Sud vive alle spalle dell’Italia che produce. Falso! (Idòla. Laterza). Sono pagine che non difendono acriticamente il Sud o con acredine rivedono le bucce al Nord, ma pacatamente “smontano teoremi, stereotipi e falsi idoli”. Per esempio, di fronte all’ovvia considerazione che senza il Sud l’Italia sarebbe più ricca, Viesti argomenta che anche Milano sarebbe più ricca senza le periferie, perché modificando i confini si manipolano le medie. Ma Milano non sarebbe Milano senza le periferie, come l’Italia senza il Sud. Piuttosto c’è da chiedersi se l’Italia si sarebbe sviluppata meglio, dopo il 1861, senza il Sud: “è stato il gettito fiscale dell’ intero paese, di prevalenza prevalentemente agraria, a farsi carico prima del debito piemontese, poi dello sviluppo infrastrutturale, delle ferrovie, delle scuole, dei telegrafi. Sono state le rimesse degli emigranti a finanziare il saldo della bilancia commerciale e a permettere al “triangolo” di industrializzarsi. È stato il sacrificio dell’intero paese e in particolare del Sud agricolo a sostenere la spesa dei grandi salvataggi industriali …”. Ce n’è a sufficienza, credo, per desiderare di leggere tutto il resto.
Altro luogo comune, sbandierato nella marchionnesca corte renziana, è che “dobbiamo abituare la gente che l’istruzione sarà molto più lunga e costosa, le assunzioni a tempo indeterminato molte di meno, i tempi di lavoro più lunghi, i pensionamenti verranno posticipati. Le riforme non hanno solo un fine economico, ma anche e soprattutto sociale perché servono a modificare la mentalità lavorativa degli italiani” (Taddei, responsabile economico del Pd (sic!). Tradotto: addio allo stato sociale. Federico Rampini, però, in un agile volumetto, sempre edito da Laterza, (Non ci possiamo più permettere lo Stato sociale. Falso!) ci spiega perché l’ideologia neoliberista (quella riflessa nelle parole di Taddei) blocca la ripresa e perché sia falso che lo Stato sociale sia ormai insostenibile. Rampini argomenta denunciando la profonda ingiustizia del sistema sociale statunitense e la superiorità del sistema sociale europeo (forse la vera cifra dell’Europa nel Novecento), sviluppando il discorso intorno alle responsabilità storiche di chi causò la crisi del 2008, affrontata poi con mezzi parte inadeguati parte sfacciatamente “com- plici” e di chi volle curare la malattia con una politica economica che invece la aggravava. Dunque, la svolta vera può venire solo da un radicale cambiamento delle scelte, che segnino un ritorno alla lezione di J. M. Keynes. Rampini conclude invocando per l’Italia non solo una politica economica nuova, ma soprattutto una “scelta di civiltà”.
Per avere più chiare e più concrete le prospettive di cambiamento verso un’Italia più attenta agli ultimi, ai disoccupati, alle donne, ai giovani, ecco altri due saggi laterziani (G. Marcon e M. Pianta, Sbilanciamo l’economia. Una via d’uscita dalla crisi e B. Bortolotti, Crescere insieme. Per un’economia giusta.) che sono di lettura meno agevole della prosa anglosassone di Rampini, ma ricchissimi di dati e di idee.
Nel libro di Marcon e Pianta è descritta con toni allarmati la crisi, ma è tracciata la via d’uscita: il mercato sottomesso al bene comune, i profitti sottomessi al lavoro, il privilegio sbaragliato dall’uguaglianza. Ce n’è abbastanza per credere che questo saggio stia sul comodino di papa Francesco a Santa Marta.
Bortolotti rincara la dose accentuando l’allarme sulla “crescita eccessiva delle diseguaglianze”, che è la vera, tragica questione sociale del nostro tempo. Questione per la quale, forse, non basta più una svolta politica ed economica se non si intreccia con una ben più necessaria conversione etico-culturale.
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