Queste non sono rivolte del pane o della fame. Queste sono rivolte di consumatori deprivati ed esclusi dal mercato. Le rivoluzioni non sono la conseguenza inevitabile delle ineguaglianze sociali, lo sono invece i terreni minati… Se le rivoluzioni sociali sono invece fenomeni mirati, ecco che è possibile intervenire per identificarle e disinnescarle in tempo. Ma non le esplosioni da terreno minato. Cosi si esprimeva Zigmund Bauman lo scorso agosto, dalle colonne del Corriere della Sera, all’indomani della protesta che ha avuto luogo in diverse città inglesi con protagonisti migliaia di giovani.
E mentre mi accingo a scrivere queste note, per le strade di Roma, quello che doveva essere il corteo degli “indignati” italiani – in contemporanea con quelli di tante altre città al mondo – non riesce a snodarsi per le vie della capitale, bloccato e interrotto dagli atti inconsulti e violenti di pochi (rispetto alle migliaia in corteo) inqualificabili teppisti. Lo strascico polemico, che i mezzi d’informazione ovviamente ingigantiscono, fa perdere di vista l’obiettivo della manifestazione e ne vanifica anche il senso profondo.
Tra le parole che sono rimbalzate in questa occasione di protesta contro la “crisi” che affligge l’intera società (mondiale) è ormai diventato familiare l’anglofono default [pronuncia: dìfolt]. I media lo traducono, con approssimazione, “fallimento”, limitandosi ad una interpretazione riduttiva inerente il lessico specifico del settore economico.
Come da più parti osservato, il vocabolo che la lingua inglese prende a prestito dal francese défaut (in italiano “difetto”), è sia un sostantivo che un verbo, e si traduce in maniera differente a seconda dell’area semantica cui fa riferimento: “mancanza, carenza”, ovviamente “difetto”, ma anche “inadempienza” che corrisponde all’assenza di azione o di reazione. Nell’ambito commerciale esprime “insolvenza” quando non sono onorati i debiti contratti, non si paga il dovuto, non si risarcisce un danno; nel linguaggio giuridico default corrisponde all’italiano “contumacia”. In quanto verbo esso traduce “venire meno, tralasciare”, denunciando in tal modo colpevole inattività o responsabilità elusa.
Se da un lato ci sentiamo tutti coinvolti in questo generale default perché ad ogni livello si percepisce e si vive una condizione non semplice, sul piano economico soprattutto, viene da chiedersi se parlare esclusivamente di default quale sinonimo di “fallimento” renda giustizia al vero significato del termine e ne rispecchi un uso proprio. A ben guardare default è una parola che nel linguaggio informatico ha una propria collocazione: le operazioni di routine di un programma vengono svolte “di default”, cioè in modo automatico; quando non sono presenti istruzioni specifiche da parte di un operatore, il default rappresenta la condizione normale di funzionamento del computer.
Le sfumature di significato che la parola inglese ci offre contribuiscono a mio parere a delineare una immagine metaforica del tempo che stiamo vivendo. Una condizione generalizzata di default è il ritratto che possiamo fare di un “potere” mondiale che a detta del premio Nobel per l’economia del 2008, Paul Krugman, si basa su dottrine economiche “completamente divorziate dalla realtà”, fondate sulla menzogna: la menzogna secondo cui non c’è crescita se vengono tassati i ricchi, e quella secondo cui la crisi nasce da troppi regolamenti e non, come i fatti dimostrano, da assenza di regole (New York Times, 29 settembre). E ben vengano le proteste degli “indignati” che non vogliono sentirsi “falliti”, che non hanno intenzione di pagare per le inadempienze e le colpe di altri!
Default può definirsi il risultato di una politica regionale anch’essa, per copiare Krugman, divorziata dalla realtà: riproposizione dei medesimi schemi, sordità rispetto alle istanze da più parti presentate, conservazione mascherata dei soliti privilegi. Default come inattività, rinuncia, assenza di partecipazione. Default come crollo di qualsiasi aspettativa di miglioramento o riscatto.
Crollo come negli attimi del terremoto, come se il tempo non fosse mai passato: decimo anno. ☺
dario.carlone@tiscali.it
Queste non sono rivolte del pane o della fame. Queste sono rivolte di consumatori deprivati ed esclusi dal mercato. Le rivoluzioni non sono la conseguenza inevitabile delle ineguaglianze sociali, lo sono invece i terreni minati… Se le rivoluzioni sociali sono invece fenomeni mirati, ecco che è possibile intervenire per identificarle e disinnescarle in tempo. Ma non le esplosioni da terreno minato. Cosi si esprimeva Zigmund Bauman lo scorso agosto, dalle colonne del Corriere della Sera, all’indomani della protesta che ha avuto luogo in diverse città inglesi con protagonisti migliaia di giovani.
E mentre mi accingo a scrivere queste note, per le strade di Roma, quello che doveva essere il corteo degli “indignati” italiani – in contemporanea con quelli di tante altre città al mondo – non riesce a snodarsi per le vie della capitale, bloccato e interrotto dagli atti inconsulti e violenti di pochi (rispetto alle migliaia in corteo) inqualificabili teppisti. Lo strascico polemico, che i mezzi d’informazione ovviamente ingigantiscono, fa perdere di vista l’obiettivo della manifestazione e ne vanifica anche il senso profondo.
Tra le parole che sono rimbalzate in questa occasione di protesta contro la “crisi” che affligge l’intera società (mondiale) è ormai diventato familiare l’anglofono default [pronuncia: dìfolt]. I media lo traducono, con approssimazione, “fallimento”, limitandosi ad una interpretazione riduttiva inerente il lessico specifico del settore economico.
Come da più parti osservato, il vocabolo che la lingua inglese prende a prestito dal francese défaut (in italiano “difetto”), è sia un sostantivo che un verbo, e si traduce in maniera differente a seconda dell’area semantica cui fa riferimento: “mancanza, carenza”, ovviamente “difetto”, ma anche “inadempienza” che corrisponde all’assenza di azione o di reazione. Nell’ambito commerciale esprime “insolvenza” quando non sono onorati i debiti contratti, non si paga il dovuto, non si risarcisce un danno; nel linguaggio giuridico default corrisponde all’italiano “contumacia”. In quanto verbo esso traduce “venire meno, tralasciare”, denunciando in tal modo colpevole inattività o responsabilità elusa.
Se da un lato ci sentiamo tutti coinvolti in questo generale default perché ad ogni livello si percepisce e si vive una condizione non semplice, sul piano economico soprattutto, viene da chiedersi se parlare esclusivamente di default quale sinonimo di “fallimento” renda giustizia al vero significato del termine e ne rispecchi un uso proprio. A ben guardare default è una parola che nel linguaggio informatico ha una propria collocazione: le operazioni di routine di un programma vengono svolte “di default”, cioè in modo automatico; quando non sono presenti istruzioni specifiche da parte di un operatore, il default rappresenta la condizione normale di funzionamento del computer.
Le sfumature di significato che la parola inglese ci offre contribuiscono a mio parere a delineare una immagine metaforica del tempo che stiamo vivendo. Una condizione generalizzata di default è il ritratto che possiamo fare di un “potere” mondiale che a detta del premio Nobel per l’economia del 2008, Paul Krugman, si basa su dottrine economiche “completamente divorziate dalla realtà”, fondate sulla menzogna: la menzogna secondo cui non c’è crescita se vengono tassati i ricchi, e quella secondo cui la crisi nasce da troppi regolamenti e non, come i fatti dimostrano, da assenza di regole (New York Times, 29 settembre). E ben vengano le proteste degli “indignati” che non vogliono sentirsi “falliti”, che non hanno intenzione di pagare per le inadempienze e le colpe di altri!
Default può definirsi il risultato di una politica regionale anch’essa, per copiare Krugman, divorziata dalla realtà: riproposizione dei medesimi schemi, sordità rispetto alle istanze da più parti presentate, conservazione mascherata dei soliti privilegi. Default come inattività, rinuncia, assenza di partecipazione. Default come crollo di qualsiasi aspettativa di miglioramento o riscatto.
Crollo come negli attimi del terremoto, come se il tempo non fosse mai passato: decimo anno. ☺
Queste non sono rivolte del pane o della fame. Queste sono rivolte di consumatori deprivati ed esclusi dal mercato. Le rivoluzioni non sono la conseguenza inevitabile delle ineguaglianze sociali, lo sono invece i terreni minati… Se le rivoluzioni sociali sono invece fenomeni mirati, ecco che è possibile intervenire per identificarle e disinnescarle in tempo. Ma non le esplosioni da terreno minato. Cosi si esprimeva Zigmund Bauman lo scorso agosto, dalle colonne del Corriere della Sera, all’indomani della protesta che ha avuto luogo in diverse città inglesi con protagonisti migliaia di giovani.
E mentre mi accingo a scrivere queste note, per le strade di Roma, quello che doveva essere il corteo degli “indignati” italiani – in contemporanea con quelli di tante altre città al mondo – non riesce a snodarsi per le vie della capitale, bloccato e interrotto dagli atti inconsulti e violenti di pochi (rispetto alle migliaia in corteo) inqualificabili teppisti. Lo strascico polemico, che i mezzi d’informazione ovviamente ingigantiscono, fa perdere di vista l’obiettivo della manifestazione e ne vanifica anche il senso profondo.
Tra le parole che sono rimbalzate in questa occasione di protesta contro la “crisi” che affligge l’intera società (mondiale) è ormai diventato familiare l’anglofono default [pronuncia: dìfolt]. I media lo traducono, con approssimazione, “fallimento”, limitandosi ad una interpretazione riduttiva inerente il lessico specifico del settore economico.
Come da più parti osservato, il vocabolo che la lingua inglese prende a prestito dal francese défaut (in italiano “difetto”), è sia un sostantivo che un verbo, e si traduce in maniera differente a seconda dell’area semantica cui fa riferimento: “mancanza, carenza”, ovviamente “difetto”, ma anche “inadempienza” che corrisponde all’assenza di azione o di reazione. Nell’ambito commerciale esprime “insolvenza” quando non sono onorati i debiti contratti, non si paga il dovuto, non si risarcisce un danno; nel linguaggio giuridico default corrisponde all’italiano “contumacia”. In quanto verbo esso traduce “venire meno, tralasciare”, denunciando in tal modo colpevole inattività o responsabilità elusa.
Se da un lato ci sentiamo tutti coinvolti in questo generale default perché ad ogni livello si percepisce e si vive una condizione non semplice, sul piano economico soprattutto, viene da chiedersi se parlare esclusivamente di default quale sinonimo di “fallimento” renda giustizia al vero significato del termine e ne rispecchi un uso proprio. A ben guardare default è una parola che nel linguaggio informatico ha una propria collocazione: le operazioni di routine di un programma vengono svolte “di default”, cioè in modo automatico; quando non sono presenti istruzioni specifiche da parte di un operatore, il default rappresenta la condizione normale di funzionamento del computer.
Le sfumature di significato che la parola inglese ci offre contribuiscono a mio parere a delineare una immagine metaforica del tempo che stiamo vivendo. Una condizione generalizzata di default è il ritratto che possiamo fare di un “potere” mondiale che a detta del premio Nobel per l’economia del 2008, Paul Krugman, si basa su dottrine economiche “completamente divorziate dalla realtà”, fondate sulla menzogna: la menzogna secondo cui non c’è crescita se vengono tassati i ricchi, e quella secondo cui la crisi nasce da troppi regolamenti e non, come i fatti dimostrano, da assenza di regole (New York Times, 29 settembre). E ben vengano le proteste degli “indignati” che non vogliono sentirsi “falliti”, che non hanno intenzione di pagare per le inadempienze e le colpe di altri!
Default può definirsi il risultato di una politica regionale anch’essa, per copiare Krugman, divorziata dalla realtà: riproposizione dei medesimi schemi, sordità rispetto alle istanze da più parti presentate, conservazione mascherata dei soliti privilegi. Default come inattività, rinuncia, assenza di partecipazione. Default come crollo di qualsiasi aspettativa di miglioramento o riscatto.
Crollo come negli attimi del terremoto, come se il tempo non fosse mai passato: decimo anno. ☺
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