Da pieghe recondite
6 Ottobre 2015 Share

Da pieghe recondite

La dolcezza e gli incantesimi dei lunghi silenzi, le sue difficoltà spirituali, come tocchi delicati, come luci che hanno allontanato le ombre della sua esistenza, hanno prodotto parole e pensieri che rotolano nell’anima, fanno rumore, colpiscono il cuore, stimolano la mente a ricordare giorni fatti di sole, di vento, di alberi, di rondini, di solitudine, d’amore: sono poesia, sono preghiere dense di fede che volano alte, vanno oltre il balcone della sua camera, si innalzano verso il cielo, oltre gli alberi, sfiorano le foglie che tremano al vento e vibrano come la sua anima. Sono tutto quello che un uomo che è sopravvissuto al dolore, che ha combattuto e accolto la sofferenza, cerca di dire agli altri: che la vita è meravigliosa, che il cielo è azzurro, che il vento porta il profumo dei fiori, che si può essere felici con poco…

Aurelio aveva poco più di 20 anni quando un male inguaribile spezzò la sua giovinezza. Bambina, mio padre mi portava con sé quando andava a fargli visita. Rivedo il suo viso triste e dolce che non aveva perduto la rotondità infantile, i suoi occhi rassegnati e innocenti, le sue mani belle e “magiche” come quelle di mio padre, le sue gambe “morte” che lo costringevano a vivere tra il letto e la poltrona, quella poltrona che gli “tendeva le braccia in un atto materno”, alla quale confidava “sogni svaniti e speranze perdute” mentre, insieme, guardavano da dietro ai vetri del balcone “fiorire la vita nei giovani corpi”. Mio padre, per distrarlo e divertirlo, a suon di versi inventati lì per lì e poi scritti sul suo quaderno dei ricordi, gli parlava di come fosse diventata brutta la pittura nei tempi moderni: delle “picassate dalle geometriche chiassate”, dei “fauvisti selvaggi”, degli “astrattisti malsani, nemici della natura”, degli scarabocchi di Mirò, delle lallazioni pittoriche dei dadaisti e invocava Giotto, Raffaello, Tiziano… nelle cui tele prevale “il bello e il sacro” oppure, si appellava a Segantini, ai macchiaioli… alla “nobile schiera” dei quali annoverava anche lui e il suo amico e auspicava il ritorno dell’Arte vera, “alla sua divina purezza, alla sua gloria, alla sua bellezza”.

Lo sguardo puro di Aurelio è riuscito a trovare colori anche in abissi e tenebre; ne sono usciti quadri dalle tinte inattese, carichi di malinconia e di speranza, di silenzi che urlano e di voglia di vivere: sono cipressi alti e stretti, scorci di paesaggi lacustri, albe rosee di un sole che non si vede, allegri cestini di frutta presi dal vero.

La sua vita breve come un sospiro – 28 anni appena – era una lampada che non andava messa sotto il moggio, ma anche le cose più belle subiscono i danni del tempo e troppi ormai si sono scordati di lui.

Saranno i fiori di ibisco che stasera cadono nel mio giardino lenti come rintocchi, sarà l’onda viola di campanule che si avvinghia alla ringhiera o il profumo dolciastro dei fiori appassiti a far riemergere da pieghe recondite di memoria l’immagine di Aurelio. Il suo ricordo mi fa sentire a due passi dal cielo; lo raggiungo e poi torno. Imbevuta di luce. Ahimè, di effimera luce!☺

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