Del disobbedire
20 Febbraio 2019
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Del disobbedire

Ancora una volta gli eventi ci chiamano ad interrogarci sul senso delle parole, attività quanto mai consigliabile in questi tempi in cui un indegno rumore senza senso ha sostituito il parlare pacato e significante che come cittadini avremmo il diritto di aspettarci da chi ci governa; chiedersi cosa vuol dire davvero una parola aiuta dunque a tenerci stretta la sostanza delle nostre azioni e ad essere consapevoli delle implicazioni di ciò che diciamo.

Quei disumani 18 giorni dell’ ultima odissea di migranti, e le successive morti in mare, ci hanno costretti a sentirci complici impotenti delle scelte di un ministro al quale non possiamo riconoscere alcuna autorità, pena la rinuncia al nostro essere umani; e hanno riportato prepotentemente alla ribalta le parole che don Milani scrisse nel 1965 ai cappellani militari e ai giudici che lo chiamarono a processo per aver difeso l’obiezione di coscienza.

In questi miserabili 18 giorni è stato ripetuto più volte, con toni autorevoli quanto farisaici, che alle leggi si obbedisce senza interpretarle, e tanto meno discuterle: e allora è nostro dovere, in quanto umani e in quanto cittadini, credenti o meno, guardare bene dentro questa parola fatale, l’obbedienza.

Che ha in sé il senso del prestare ascolto (ob-audere, per i latini); e dunque confliggerebbe con l’idea dell’accettazione supina e senza discussioni della volontà di chi è in una posizione di potere o di ciò che è sancito dallo Stato. Sembra quasi di cogliere una possibilità di dialogo, in questo prestare ascolto: dialogo che certo invece non ha mai potuto aver luogo nell’esercito, nei tribunali, nei ministeri, nonostante la crescita lenta, a partire dal ventesimo secolo, dell’idea che alle leggi in contrasto con etica e umanità si potesse obiettare.

E proprio l’obiezione di coscienza, quella invocata da don Lorenzo nella sua mirabile Lettera ai Giudici, è risuonata con forza nelle coraggiose prese di posizione di tanti sindaci, presidenti di regione, responsabili di capitanerie di porto che nei giorni della nostra vergogna di italiani, europei ed esseri umani, hanno levato la voce per ricordare che alle leggi ingiuste si disobbedisce, e che da molto tempo l’obbedienza non è più una virtù. E non solo dai tempi di don Milani, ma almeno dai tempi di Antigone. E dei versi immortali di Sofocle, nel 442 avanti Cristo. Se l’ignoranza non regnasse sovrana, dalle parti di Roma (e non parlo solo di mancanza di conoscenze, ma di mancanza di elementare umanità), qualcuno avrebbe ricordato che già allora ci fu chi osò opporsi al potere assoluto del re in nome della legge divina che impone pietà, e in quanto proveniente dagli dei sovrasta comunque qualsiasi legge umana.

Dunque l’obbedienza non era automatica nemmeno allora; ma si è voluto continuare a legare questa parola all’idea di prontezza priva di ragionamento nell’esecuzione degli ordini. Parliamo infatti di obbedienza “cieca”; e questo aggettivo dice tutto: si vuole che chi obbedisce non veda, evidentemente, la reale portata di ciò che esigiamo. E si è definita per troppi anni l’obbedienza “dovuta”: è l’orrenda obediencia debida dei torturatori assassini nell’Argentina dei generali.

Sembra incredibile che, dopo tanti secoli, sostanzialmente questo sia stato urlato, con arroganza becera, a coloro che richiamavano il diritto di non applicare leggi inumane; sembra impossibile che si continui a invocare l’obbedienza alle leggi sempre e comunque. Come se i bagni di sangue delle due guerre mondiali, l’oscenità delle leggi razziali e delle leggi di guerra naziste, le atrocità delle dittature non avessero tolto ogni velo alla maschera del dovere e dell’obbedienza, e ogni possibilità di senso univoco alla parola obbedienza.

Non possiamo sperare che il nostro (ahimè) ministro dell’interno accolga l’invito di Michele Gesualdi, ex alunno di don Lorenzo, a leggere la Lettera ai Parroci e la Lettera ai Giudici, invito rivolto dopo che Salvini si permise di citare (a sproposito, come da copione), don Milani durante una manifestazione della Lega. Possiamo solo operare perché si moltiplichino le scelte di obiezione di coscienza, unica nostra possibilità di riscattarci dalla melma in cui ci stanno sprofondando per toglierci anche le ultime briciole di umanità.

Possiamo, e dobbiamo, sostenere chi continua a credere che la parola obbedienza non debba più essere seguita dall’aggettivo “cieca”; schierarci con chi sente ancora di dover rispondere ad una legge morale dentro di lui e accetta di pagare di persona la propria disobbedienza. Possiamo dissentire, e come lo scrivano Bartleby di Melville, rispondere: “Preferirei di no”.

Perché se ci si chiede di attribuire un senso alla parola obbedienza, l’unico valido è quello che ci impone di prestare ascolto: alla diversità, alla povertà, alla solitudine, al dolore altrui. Ai diseredati e agli oppressi, nostra unica patria.☺

 

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